Le donne e il lavoro di cura non retribuito tra ingiustizie e invisibilità

Fino all’8 marzo parlerò nel mio podcast di attualità InFormAzione, in modo continuativo di tematiche femminili. Non che questi argomenti non saranno più affrontati dopo l’8 marzo, tutt’altro, ma in queste nuove puntate riserverò un occhio ancor più di riguardo al tema delle pari opportunità e nello specifico dell’emancipazione femminile. Nel diciottesimo episodio ho parlato di donne e politica, dando tutti i numeri (o quasi) del gender gap. Vi rimando alla puntata precedente. Devo fare comunque una rettifica su un refuso. A un certo punto invece di dire Australia, ho detto Austria. Mi scuso. Oggi mi soffermo invece sul lavoro di cura non retribuito, dandovi i dati, e su quanto questo ricada sulle donne, anche su coloro che lavorano fuori casa. Buon ascolto.

lavoro di cura non retribuito

Lavoro di cura non retribuito: dati

I dati del 2012 ci dicono che il lavoro domestico e di assistenza non retribuito ricade in tutti i Paesi del mondo primis sulle donne, anche in quegli Stati europei dove il divario di genere è più contenuto e mi riferisco alla Svezia e alla Finlandia, sebbene la differenza tra uomini e donne per il lavoro di cura non pagato sia minima.

I dati del 2012 dicono che in Italia le ore al giorno trascorse per il lavoro di cura non retribuito ammontano in media per le donne a più di 5 ore e per gli uomini 2 ore. Ed è il numero più alto d’Europa. Le donne italiane lavorano in casa quanto le algerine, con la differenza che gli algerini non partecipano per niente alla vita domestica. Invece gli italiani qualcosa la fanno.

Ecco quante e quali faccende svolgono le donne

 Le faccende domestiche per le quali la responsabilità ricade sulle donne sono nel Regno Unito ma (dati 2014) pulizie settimanali, pulizie giornaliere, lavare i vestiti, lavare la biancheria, cambiare le lenzuola, stirare, gestire il budget familiare, gestire l’assicurazione auto, gestire l’assicurazione sulla casa, gestire pagamenti delle bollette, tenere i rapporti con la scuola dei figli, preparare lo zaino della scuola dei figli, comprare vestiti… prendersi orari extra al lavoro per i figli malati, organizzare il Natale, calmare i bambini che si svegliano la notte, leggere le favole della buona notte, gestire gli appuntamenti medici, prenotare le vacanze.

Ma l’elenco è così lungo che impiegherei tutto il tempo se volessi soffermarmi su ogni singola faccenda svolta dalle donne.

Gli uomini buttano la spazzatura, compiono lavori di riparazione e bricolage, cambiano le lampadine. Ovviamente ogni caso è a sé. E’ una media.

Più potere decisionale?

Questo sembrerebbe dare alle donne un maggiore potere decisionale nell’ambito delle pareti domestiche ma toglie loro energie, salute psicofisica (sono in aumento gli infarti del miocardio femminili) e anche diritti, perché la mancanza di tempo non permette alle donne di partecipare in modo attivo alla vita sociale, politica e lavorativa fuori dalle parete domestiche.

Meno tempo a disposizione significa meno rappresentanza politica e quindi meno tutela in tutti gli ambiti, compreso il lavoro, perché gli uomini non possono conoscere i problemi e disagi delle donne.

Quanto inciderebbe sul Pil il lavoro di cura non retribuito?

Il 75% del lavoro di cura non retribuito ricade sulle donne. Il McKinsey Global Institute ha calcolato che il lavoro di cura delle donne contribuisce per circa diecimila miliardi di dollari al Pil annuo mondiale. Ma nonostante tutto il lavoro di cura non retribuito non viene né visto né valutato. Come si è giunto a tutto questo lo spiega molto bene Caroline Criado Perez nel suo libro Invisibili (lo trovi qui).

Una risorsa a costo zero

L’attivista e giornalista intervista proprio sul Pil Diane Coyle, docente di economia alla Manchester University. Cominciamo col dire che il lavoro di cura non retribuito è una risorsa a costo zero. Come sia diventata una risorsa a costo zero ce lo spiega proprio Diane Coyle nel libro che ho citato.

«Molti pensano che il Pil sia un dato reale. E invece no: è una costruzione fondata su un insieme di valutazioni e su un buon numero di incognite». Misurare il Pil, «non è come misurare l’altezza di una montagna». Quando leggete sui giornali che «il Pil è aumentato dello 0,3 per cento nell’ultimo trimestre», dovreste ricordarvi che quello 0,3 «è minimizzato dal margine di incertezza dei dati sottostanti». Quell’incertezza è frutto di clamorose lacune nei dati che concorrono a determinare la variazione, a cominciare dalla miriade di beni e servizi che non vengono presi in considerazione nel calcolo del Pil.

E la scelta di quali considerare e quali no è comunque arbitraria. Il fatto è che fino agli anni Trenta del secolo scorso nessuno aveva mai pensato seriamente di misurare le economie nazionali; ma poi c’è stata la Grande Depressione, e tutto è cambiato. Per cercare di porre rimedio al disastro economico, il governo aveva bisogno di sapere con più precisione che cosa stava succedendo: e perciò nel 1934 uno statistico di nome Simon Kuznets calcolò il primo bilancio nazionale degli Stati Uniti: fu così che nacque il Pil.

Venne poi la Seconda guerra mondiale, e proprio in quegli anni, mi spiega Diane Coyle, si mise a punto il quadro metodologico di cui ci serviamo tuttora. Il calcolo doveva rispondere alle necessità di un’economia di guerra: «Lo scopo principale era capire quanto si poteva produrre, e quali consumi dovevano essere sacrificati per avere risorse sufficienti a sostenere lo sforzo bellico». Perciò si decise di conteggiare l’intera produzione dello Stato e delle aziende private, e «il concetto di economia finì per corrispondere a “ciò che fa lo Stato e ciò che fanno le aziende”». Ma quello che sarebbe poi diventato «l’accordo internazionale sul modo di pensare e misurare l’economia» tralasciava un importante aspetto della produzione nazionale, ovvero il lavoro domestico non retribuito: cucinare, pulire la casa, occuparsi dei figli. «Tutti riconoscono che quel lavoro ha un valore economico; solo che non fa parte dell’“Economia”», spiega Diane Coyle. Non si è trattato di una semplice svista ma di una scelta deliberata, giunta al termine di un acceso dibattito.

«L’esclusione dei servizi non pagati delle casalinghe dal calcolo del reddito nazionale distorce il quadro generale», scriveva l’economista Paul Studenski nel suo testo canonico del 1958, The Income of Nations. In linea di principio, sosteneva, «il lavoro non retribuito svolto all’interno della casa dovrebbe fare parte del Pil». Ma anche i principî sono una creazione umana, e cosí, «dopo un po’ di tira e molla» e lunghe discussioni su come si sarebbero potuti misurare e valutare i servizi domestici non retribuiti, «si decise, – racconta Coyle, – che la raccolta dei dati sarebbe stata troppo complessa». Come molte delle scelte che nei campi più svariati, dall’architettura alla ricerca medica, hanno portato a escludere le donne per amor di semplificazione, anche questa è sintomo di una cultura che vede nel maschio l’essere umano per definizione e nella femmina un’aberrazione marginale.

Le soluzioni?

Ora la soluzione è nell’educazione. Prima di tutto vanno educati i bambini e le bambine in egual modo, abituandoli sin da piccoli all’autonomia e al lavoro di cura non retribuito. E poi è necessario che i vari Stati riconoscano il valore del lavoro di cura non retribuito, a prescindere da chi lo svolge. Se il lavoro di cura rientrasse nel Pil sono certa che anche gli uomini comincerebbero a svolgerlo perché gli diamo finalmente dignità.

Ho sentito uomini giudicare altri uomini perché svolgevano le faccende domestiche. Ho sentito uomini chiamare mammo o baby sitter padri che si prendevano cura dei figli. Usciamo da questa mentalità patriarcale, è tempo di farlo per il benessere di tutti…

Approfondimenti

Per approfondimenti vi rimando al terzo, al quinto, al sesto e al nono. Dove affronto tematiche di genere, intervistando anche esperti.

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