Blonde: recensione del film su Marilyn Monroe

Blonde, premessa

Blonde, il film di Andrew Dominik (il regista ha curato sceneggiatura e regia), sta facendo molto discutere sin da quando è stato proiettato alla 79. Mostra del Cinema di Venezia. Essendo adesso diventato accessibile agli abbonati di Netflix, il lungometraggio sta contribuendo ad alimentare il dibattito pubblico sui social non solo sulla figura stereotipata di Marilyn Monroe ma anche su come i corpi femminili appaiono sullo schermo.

D’altra parte la critica femminista è molto chiara: il Cinema Classico e poi successivamente anche la Televisione non hanno quasi mai considerato il corpo delle donne l’abito dell’anima ma lo hanno visto un oggetto da esporre e da trattare come materiale erotico maschile, benché a guardare i film e i programmi televisivi fosse anche (ma occorrerebbe dire soprattutto) un pubblico femminile. Ed è questo il vero paradosso. I film venivano realizzati dagli uomini anche per le donne. Di conseguenza tutto il ragionamento sul divismo, su Blonde e sulla vita di Marilyn Monroe non può non tener conto di questo paradosso.

“Incontrastato, il film tradizionale codificava l’erotico nel linguaggio dell’ordine patriarcale dominante”.

Laura Mulvey

Il mito della bionda svampita ed eroticamente eccitante ha incastrato la grande attrice in una trappola mortale facendo diventare la donna, non l’artista, una cosa da possedere e da esibire per provare e far provare piacere aumentando così gli incassi di tutta la macchina del business cinematografico e non solo. Il film racconta tutto questo in chiave erotica ma, quando lo guardiamo, dobbiamo sempre tener conto che è ancora una volta lo sguardo maschile del regista a definire la protagonista.

Blonde: recensione del film

Come molti hanno già scritto, Blonde è un film che disturba, perché parte solo dal punto di vista della vittima (ed è in questo che il lungometraggio si differenzia dal romanzo dal quale è tratto. Lo trovi in calce, nda). Ne viene fuori una sorta di panoramica molto romanzata su una parte della biografia di Marilyn Monroe, la quale (bisogna ammetterlo senza giustificare il sistema dello show business), se così sono andate davvero le cose, avrebbe potuto sottrarsi ai ricatti psicologici dei suoi carnefici. Quindi, la vittima in questa pellicola subisce senza nessuna possibilità di scelta. Non c’è altro qui, non c’è la Persona, non c’è l’artista. C’è solo un corpo.

Certo, Blonde va considerato un’opera d’arte d’avanguardia, dal taglio leggermente espressionistico. Il film parte da un romanzo, che non è una fonte storica credibile, e racconta aneddoti verosimili seguendo una certa cronologia. Le angolature spesso si restringono, lo schermo si appiattisce, le immagini si distorcono, le lunghe carrellate delineano i contesti, i colori si annullano lasciando il posto al bianco e al nero che mette in risalto gli intensi primi piani di una donna molto bella, la quale è una marionetta nelle mani sia degli uomini che ama che di quelli che le danno spazio ad Hollywood.

Nel film si lascia intendere poi che molte delle decisioni della diva – che sembrano essere causate da una totale mancanza di autostima – vengano condizionate dall’assenza del padre e dalla malattia mentale della madre che nelle sequenze iniziali maltratta la piccola Norma Jeane (questo è il nome vero di Marilyn) tentando addirittura di soffocarla in una vasca piena d’acqua.

Blonde non è un film rassicurante per le ragazze né tantomeno educativo 

L’immagine dell’uomo più potente della terra, ovvero il Presidente degli Usa, Kennedy, steso sul letto mentre parla a telefono con accanto Marilyn che gli deve conferire per forza piacere sessuale, è forse la scena più nauseabonda di questo lungometraggio perché l’attrice viene ridotta ad un pezzo di carne e si sente tale.

“La donna vive il proprio corpo come visto da un altro, un Altro anonimo e patriarcale”.

Sandra Lee Bartky (docente di studi di genere)

Blonde, per com’è è strutturato, pur non convincendomi del tutto per il contenuto, ci costringe tuttavia ad aprire ancora una volta una profonda riflessione sul divismo, su come sono state e vengono ancora considerate le bionde dalla Settima Arte e soprattutto sui corpi femminili grazie all’interpretazione magistrale di Ana de Armas che, come Kristen Steward in Spencer, conferisce al suo personaggio una forte tensione emotiva. Maria Ianniciello

Trovi il libro da cui è tratto il film qui

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