Respect: recensione del film su Aretha Franklin

C’è una mano femminile che proviene dal Teatro statunitense dietro al film ‘Respect’ . Ma è anche una mano di colore quella che dirige, in maniera encomiabile, la macchina da presa di questo biopic bellissimo. So che i superlativi sono banditi in una recensione ma, credetemi, non trovo altro aggettivo per definire questo lungometraggio che narra una storia dal grande impatto emotivo.

Attraverso un’attrice e cantante del calibro di Jennifer Hudson, Liesl Tommy mette in scena, il dramma esistenziale della donna con la voce più bella al mondo: Aretha Franklin (25 marzo 1942 – 16 agosto 2018). Cresciuta in un ambiente agiato, con un padre pastore battista e una nonna molto presente, Aretha respira il vento dell’indipendenza e dei diritti civili sin da bambina quando la morte prematura della madre, cantante anche lei, è la concausa di un profondo disagio esistenziale che si manifesta anche negli anni successivi. Alle gravidanze avute da giovanissima e agli esordi come cantante Gospel nella comunità Battista segue poi nella signora Franklin la necessità di sottrarsi al dominio del padre (Forest Whitaker nel film è C. L. Franklin), che aveva anche amicizie influenti come quella con Martin Luther King, con cui Aretha era molto in confidenza.

Respect recensione

L’amore per Ted White (Marlon Wayans) è l’occasione per sfuggire dal Gospel e da Detroit. Il legame con Ted, che diventa subito conflittuale e violento, si trasforma nella sua massima ispirazione. Infatti, nei primi successi Soul (la svolta arriva nel 1968) trapela sia la rabbia delle donne afroamericane, che manifestano il loro dolore per gli abusi subiti dai mariti violenti, che la lotta della gente di colore contro il predominio e gli abusi dei bianchi.

Respetc’ descrive, dunque, alcuni momenti cruciali della vita di Aretha Franklin con taglio non eccessivamente documentaristico e quindi imparziale sotto il profilo emotivo, perché il film riesce ad emozionare lasciando una sensazione di pace nello spettatore. La pellicola, infatti, affascina, stupisce, coinvolge con primi-primissimi piani e campi medi che definiscono il contesto facendo vedere anche come viveva la borghesia afroamericana a metà del secolo scorso. Tra luci e ombre, momenti stellari e attimi molto cupi, come accade nel recente biopic su Judy Garland, la regina del Soul riprende vita in questo lungometraggio che motiva, coinvolge e divulga al contempo cultura musicale.

La recensione del film è stata scritta da Maria Ianniciello, segui l’autrice su Instagram

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