The Woman King, il film visto con una lente femminista

Il film The Woman King si presta a più interpretazioni e chiavi di lettura. Può essere visto come un lungometraggio motivazionale andando così oltre il concetto di etnia, genere e status sociale. Ma può essere visto soprattutto con uno sguardo identitario che incoraggia al superamento dei propri limiti endogeni mutabili quante e quanti partono da una condizione di svantaggio legata in primis a cause endogene immutabili, come la razza e il genere.

La verità è che The Woman King è un film sfacciatamente politico. Ed è proprio la sua sfacciataggine che lo rende un prodotto accattivante, perché un film così non si era mai visto. Sì, va bene! C’è qualche lungometraggio analogo, soprattutto nei toni e nello stile epici ma non nella sostanza perché di eserciti di donne africane il Cinema era sprovvisto. E allora la chiave di lettura di questa recensione sarà identitaria e, dunque, femminista, perché credo che dopotutto sia l’analisi più plausibile e veritiera.

The Woman King: recensione

C’è l’immagine di Artemide, la dea greca della caccia, nelle Agodjié, le donne soldato del Regno di Dahomey (oggi l’attuale Benin). Ma c’è anche Atena, dea della saggezza e della strategia, in queste guerriere africane impavide che lottano meglio degli uomini perché la corporatura più esile conferisce loro un vantaggio dato dall’agilità, la sensibilità crea spirito di gruppo, la lungimiranza si trasforma in una vincente strategia militare.

Le soldatesse hanno fatto loro il motto: “Tutte per una, una per tutte“. Infatti, come dice la generale Nanisca (una straordinaria Viola Davis) da sole le donne soldato sono vulnerabili, mentre in gruppo sono imbattibili. E già qui c’è tutto lo spirito del Femminismo che fa della sorellanza (le guerriere si chiamano appunto sorelle) la sua spinta all’attivismo.

D’altra parte il Movimento si è sviluppato e consolidato con la Rivoluzione Industriale, quando le donne sono uscite dall’isolamento delle loro case per lavorare in fabbrica, dove hanno cominciato ad acquisire una mentalità di gruppo e a combattere per la parità dei diritti.

Un'immagine del film The Woman King. Recensione

La trama è basata su fatti reali

Siamo all’inizio del 1800, il Dahomey fornisce agli europei il 20 per cento di tutti gli schiavi portati nelle Americhe. Re Ghezo (John Boyega), per quanto saggio e più onesto nei valori dei suoi predecessori, non riesce ad interrompere la tratta degli schiavi, nonostante le ripetute richieste di Nanisca che è la più fidata tra i consiglieri del sovrano. Distolto un po’ ma non troppo dalle mogli  – che il Femminismo definirebbe le ancelle del Patriarcato – il re è in combutta con l’Impero di Oyo, il cui obiettivo è vendere agli europei parte della popolazione conquistata e sottomessa. Le amazzoni africane (come furono denominate poi le Agodjié dai colonizzatori) saranno chiamate a difendere il loro regno.

Personaggi molto particolareggiati

La macchina da presa di Gina Prince-Bythewood si insinua nel palazzo, mostrandoci lo stile di vita ma anche le paure e le ferite di queste donne così coraggiose, e ci porta poi in battaglia. La penna magistrale di Dana Stevens crea personaggi molto particolareggiati. Nanisca – con le sue ferite fisiche e psicologiche – usa un codice linguistico e comportamentale che molte donne ancora non riconoscono e talvolta rinnegano dimostrandoci che lei è quell’una che su mille ce l’ha fatta, perché è riuscita a superare, tramite la disciplina e la rinuncia ad un lato della sua femminilità, la violenza e le tante cause esogene della disuguaglianza di genere.

Poi c’è Izogie (Lashana Lynch) che con la sua ironia riesce a dare una carica incredibile alle più giovani. Tra queste figura Nawi (Thuso Mbedu), una ragazza che dice di voler morire in guerra anziché essere frustata da un vecchio marito violento. Nawi è la piccola guerriera che c’è in ogni donna. Audace e a tratti insolente, è la più altruista tra le nuove leve. Sarà lei a chiedere a Nanisca perché ai soldati è concesso di prendere moglie, mentre le soldatesse non possono sposarsi e devono addirittura rimanere vergini. E sarà sempre lei che infrangerà le regole vedendo nel meticcio Malik (Jordan Bolger) la speranza di un reale cambiamento nelle dinamiche di coppia.

Nawi deve però percorrere ancora tanta strada per lo sviluppo della propria personalità tramite l’attivismo e la spinta all’indipendenza. Perché, ci suggerisce tra le righe The Woman King, la via per l’emancipazione femminile anche nell’ambito del matrimonio è ancora lunga e tortuosa. E le donne (tutte, non solo le nere) per avere le stesse opportunità di partenza degli uomini in ambito lavorativo e sociale devono ancora combattere. Purtroppo! Il film però ci lascia ben sperare…

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