Nostalgia di Martone: recensione del film

Dopo Qui rido io (il film che rende omaggio alla mastodontica figura di Eduardo Scarpetta, tra luci e ombre), Mario Martone ritorna in sala con Nostalgia. Il regista napoletano affida il ruolo di protagonista, non a un campano come Toni Servillo bensì a un romano come Pierfrancesco Favino. Sicuramente per l’innegabile talento dell’attore e forse anche per far emergere il senso di estraneità che pervade il personaggio principale.

nostalgia martone

Felice è un uomo navigato che a Il Cairo ha fondato un’azienda di costruzione e che da Napoli manca da circa quarant’anni. La prima sequenza si apre su un aereo e dura giusto il tempo per farci capire che Felice da cosmopolita quale è diventato parla più lingue. Ed è proprio la Lingua, oltre ai luoghi, il tratto distintivo di questa pellicola proprio perché, mediante le parole, Felice sembra aver messo una distanza tra sé e le sue radici con le quali ha difficoltà a comunicare. Appare, difatti, a disagio quando si esprime in Italiano e il napoletano è ormai per un lui un dialetto sepolto nei labirinti dell’inconscio.

Nostalgia è un film di corpi materni. La mamma, con la faccia rugosa e il corpo – che sembra un tempio – tende le mani e accarezza il viso del figlio, riconoscendolo in sé e al di fuori di sé. Il figlio si prende poi cura della Madre anziana (Aurora Quattrocchi) lavandola in una grande bacinella, come si usava fare una volta, con una solennità e una grazia che commuovono. Il regista cerca inoltre il Padre mancante e lo trova nella faccia corrucciata e allo stesso tempo compassionevole di un parroco del quartiere Sanità. Il prete di Francesco Di Leva tenta di salvare i suoi figli sottraendoli alle grinfie della Camorra che si manifesta in questa pellicola con Oreste o’ malommo (Tommaso Ragno), un amico d’infanzia di Felice oggi diventato latitante (non voglio soffermarmi sul tema dell’amicizia per non fare spoiler ma ci sarebbe molto da dire).

Ad ogni modo la reale antagonista di Felice è Napoli che è una città fantasma… una città che – come scrisse il filosofo Aldo Masullo – è immobile nelle sue contraddizioni, è imperscrutabile e allo stesso tempo è una matrigna che risucchia i suoi figli, i quali non hanno troppa scelta: o emigrano o diventano criminali. Almeno secondo Martone.

La nostalgia è qui latente ed attraversa l’animo di Felice rendendolo però troppo vulnerabile e anche molto ottimista sulla sua città natia, alla quale vuole concedere una seconda chance. La nostalgia – ci dice Martone – non è solo canaglia, è anche accecante e fuorviante perché idealizza il bello nascondendo il brutto di certi periodi della vita, in questo caso l’adolescenza. Il regista, per esprimere questo concetto, riduce il campo che diventa ristretto e soffocante quando compaiono frammenti del passato di una gioventù forse bruciata.

I flashback appaiono all’improvviso e non si inseriscono in maniera armonica nella pellicola. Quei ricordi sembrano messi lì a caso perché coinvolgono solo il protagonista. Felice è quindi una vittima sacrificale della nostalgia e perciò tenta di ricongiungersi a forza con una città che non lo vuole più, come accade in certe dipendenze affettive, dove chi ne soffre insegue l’amato fino ad annientarsi. E… forse è questo senso di iniziale estraneità, che pervade anche gli spettatori, a cui fa seguito un accenno di euforia, la caratteristica peculiare del nuovo film di Martone che si lascia ispirare questa volta non dal Teatro bensì dal romanzo di Ermanno Rea. Maria Ianniciello

Qui trovi il romanzo che ha ispirato il film

Commenti

commenti

Lascia un commento

Torna in alto