Mudbound, recensione del film

Chiamatelo politicamente corretto. Chiamatelo come volete per negare l’evidenza ma, quando è la grande Storia a parlare mediante piccole storie che sono rese significative dal messaggio provocatorio che portano con sé, c’è poco da minimizzare o deridere. E spesso è proprio il cinema a rendere palese ciò che la mente si rifiuta di accettare forse per comodità e qualche volta per non sentirsi in colpa. Mudbound fa parte di quei film sconvolgenti proprio per la scottante verità che si manifesta nuda e cruda in un paesaggio color seppia, accecante a causa del sole che scotta la schiena dei coltivatori di cotone.

Mudbound: recensione del film e trama

La macchina da presa indugia sui volti macchiati dal fango di una famiglia di bianchi che trascina nella polvere una bara, tra fatica e, forse, un piglio di dolore. Il cammino ostico di questi personaggi s’interrompe quando appare su un carro una famiglia di afroamericani. Si capisce subito che qualcosa è accaduto e, quindi andiamo indietro nel tempo, quando Henry McAllan (Jason Clarke) – dopo aver sposato Laura (Carey Mulligan), dalla quale ha due figlie – decide di acquistare una fattoria nel Mississippi dove si trasferisce con il padre e con la famiglia. Qui risiedono i Jackson, un nucleo familiare di colore che da tempo coltiva il terreno dei McAllan.

Siamo negli anni Quaranta. Quando i giapponesi invadono Pearl Harbor, vengono chiamati alle armi sia Jamie, il fratello minore di Henry McAllan (Garrett Hedlund), che Ronsel (Jason Mitchell), il figlio maggiore dei Jackson. Finta la guerra, tra i due nasce una profonda amicizia ma siamo nel Sud degli Stati Uniti, in uno degli Stati più razzisti d’America. La segregazione razziale è all’apice e la schiavitù, pur essendo stata abolita nella forma, resta ancora in vigore nella sostanza perché molte persone, avare d’amore, considerano inferiori altri esseri umani per il colore della loro pelle.

budmound recensione

Un film cruento

Mudbound è un film cruento che rialza ancora una volta i riflettori su un passato oscuro in cui non solo i neri ma anche le donne venivano considerate nullità. Infatti, il modo in cui Laura viene trattata da Henry la dice lunga su come il patriarcato considerasse le persone che non rientravano in determinati canoni. Coloro che non erano maschi, forti e bianchi erano delle merci, sulle quale esercitare un potere illimitato.

Il lungometraggio, con il suo finale opprimente, crea una sensazione di rabbia e impotenza che però non cela la speranza che si possa creare qualcosa di buono per seppellire una mentalità omofoba che ancora chiede il diritto di esistere. Il film – che è diretto dalla regista statunitense Dee Rees – è l’adattamento del libro Fiori nel fango di Hillary Jordan (lo trovi qui). La pellicola uscì al cinema nel 2017 e nel 2018 fu candidata a 4 premi Oscar e due Golden Globes. Ad oggi la potete vedere su Netflix. Maria Ianniciello

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