“L’isola senza nome” di Rebecca Walker: la recensione

L'isola senza nomeDue amiche lasciano il loro Paese, gli Stati Uniti, per intraprendere il viaggio della vita: uno o forse due anni, si vedrà, alla scoperta del mondo e, come in una sorta di romanzo di formazione, di se stesse. Così si apre “L’isola senza nome”, il romanzo scritto da Rebecca Walker, ancora caldo di stampa e pubblicato da Frassinelli. Due amiche, dicevamo, diciannove e vent’anni, compagne di College, entrambe «outsider in un mondo eletti», unite dalla voglia di spingersi oltre i limiti, di sperimentare, di baciarsi giusto per «scoprire che effetto» fa. Benestanti, le due studentesse americane, tanto da poter decidere durante un bagno turco di partire verso l’ignoto, di avventurarsi per il mondo per un tempo indefinito, di vedere con i loro occhi l’Europa, l’Asia e, infine, l’Africa. L’Africa, infine: perché questo continente sarà l’ultima tappa del loro viaggio insieme, sarà il luogo in cui il loro rapporto, inizialmente tanto forte, inizierà presto a vacillare e dove la protagonista, l’io narrante, la minore delle due, deciderà di fermarsi, o almeno ci proverà. Egitto, Kenya e, finalmente, “L’isola senza nome”, o meglio «uno scoglio in mezzo all’Oceano Indiano – Lumu – staccato dalla vasta massa di terra chiamata Corno d’Africa». Un luogo, quest’isola, in cui la giovane protagonista si troverà molto presto a suo agio, in cui sentirà di poter cogliere la vera anima dell’Africa, l’essenza di un continente tanto lontano e diverso da quello che ha sempre considerato “casa” e che ora vede distante. Non passano molti giorni sull’isola che Miriam, la maggiore delle due, inizia subito a capire come qualcosa le stia allontanando: attratta dalla voglia di vedere più luoghi possibili, di mordere e fuggire, di farsi riprendere dal vortice del viaggio, Miriam comincia a intuire che l’amica sta rischiando di «perdersi e di non riuscire più a tornare», complice l’incontro con un giovane abitante dell’isola, Adé. L’amicizia si incrina, Miriam lascia l’isola mentre la protagonista, d’ora in poi chiamata “Farida” (“gioiello”) da Adé, decide di fermarsi, di vivere la sua storia d’amore, di sposarsi, di velarsi.

rebecca walker
Rebecca Walker @ www.rebeccawalker.com

Due culture, quella americana e quella dell’Africa subsahariana, che si incontrano, si studiano, svelano i reciproci pregiudizi e luoghi comuni. Madre cristiana e padre ebreo per lei, famiglia musulmana e molto osservante per lui: differenze che i due giovani intendono superare con il dialogo, con il rispetto. Ma le diversità culturali non si esauriscono in una fede religiosa apparentemente diversa e, forse, a volte l’amore non è sufficiente. Questo, almeno, quello che sembra accadere ai due protagonisti, che presto dovranno affrontare non soltanto credo, usanze e tradizioni diverse, ma anche, ed è il caso della ragazza, uno stato di polizia come quello di Moi, una società in cui se sei della tribù “giusta” puoi ottenere facilmente un passaporto, un ospedale in cui l’infermiera utilizza la stessa siringa più volte e in cui la morte sembra tanto vicina. Un libro, quello della Walker, in cui ci si addentra in punta di piedi in un mondo lento e bellissimo, fatto di colori, profumi e paesaggi unici, ma anche governato da regole non sempre comprensibili a una giovane e ricca ragazza americana. Un romanzo che, soprattutto nella seconda parte, scorre rapidamente, tra corruzione di funzionari kenioti, minacce di morte da parte della polizia di regime, paura di morire e paura, infine, di vedere sfumare il sogno di un amore.

Valentina Sala

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