Gaza, quelle immagini di morte sui social media…

socialNegli ultimi giorni ho letto e ascoltato dibattiti in merito alla liceità o meno di pubblicare foto di atrocità e morte a Gaza, soprattutto quando le vittime sono bambini anche molto piccoli.

Il tema fa riflettere e infiammare gli animi, impossibile negarlo; alcuni rivendicano il diritto di cronaca, altri ritengono che tale diritto non abbia nulla a che vedere con l’informazione e la conoscenza. Come al solito le polemiche servono a poco, se non a creare un disordine dal quale, poi, è difficile uscire.

Le immagini, di qualunque tipo siano, rappresentano un documento, una testimonianza. Ciò, però, non vuol dire che questa testimonianza debba essere mostrata a tutti i costi e senza alcun tipo di precauzione o filtro. Informare vuol dire spiegare, dare al pubblico strumenti e nozioni per capire ciò che sta accadendo e questo vale per la tremenda situazione a Gaza come per qualunque altro argomento. Non serve, dunque, l’ausilio di foto strazianti che nulla aggiungono alle notizie, pur essendo prove di fatti accaduti. Se davvero vogliamo comprendere problemi e difficoltà che attanagliano un luogo non così lontano da noi, allora dobbiamo leggere i giornali, ascoltare i resoconti e approfondire sui libri di Storia. In questo modo avremo un quadro più chiaro di una condizione molto complessa e che dura da tanto, troppo tempo.

Qualcuno può sostenere che le immagini strazianti possano sensibilizzare il pubblico, indurlo a fare qualcosa di concreto. Ne dubito, sinceramente. Certe foto possono impressionare anche per giorni, ma la reazione della psiche non tarda ad arrivare, creando una sorta di assuefazione a quell’orrore che non si può controllare, una sorta di difesa contro qualcosa che viene percepito come un pericolo brutale, ma non è presente fisicamente accanto a noi. Del resto per quel che concerne l’assuefazione alla violenza sono state spese molte parole e scritti articoli e libri validissimi su quanto la “ripetizione del male” possa essere dannosa per i giovani e per le persone più adulte.

foto facebook

C’è da dire, poi, che ognuno di noi possiede un livello di tolleranza alla paura e alla violenza soggettivo e, perciò, diverso da quello degli altri. Queste sensazioni sono del tutto spontanee e non si può certo colpevolizzare e condannare chi non riesce a guardare le immagini considerate “forti”. Non si tratta di vigliaccheria, semplicemente di umanità. Di contro chi ha il coraggio di guardare non può certo essere tacciato di insensibilità tout court.

Per questo motivo non ritengo neppure utile che le foto di questo tipo vengano pubblicate sui social network; non si tratta di censura, ricordiamo che censura e rispetto del prossimo sono cose molto diverse. Quando stiamo per pubblicare sui social media materiale che può turbare la sensibilità degli utenti, dobbiamo fare un passo indietro e non pensare solo che “la bacheca è nostra e quindi possiamo scrivere ciò che vogliamo”, ma chiederci se valga la pena condividere, riflettendo sul fatto che i nostri contatti non possono “difendersi” dalle immagini che abbiamo postato, non possono scegliere, cioè, se vederle o meno.

La famosa, a volte abusata, frase “la nostra libertà finisce dove comincia quella degli altri” è valida anche nel mondo virtuale. Scegliere di non pubblicare, non mostrare foto terribili di atroci e assurde morti non vuol dire negare dei fatti che sono evidenti, che è impossibile per chiunque tentare di nascondere e che non devono essere dimenticati. Significa, piuttosto, avere rispetto della morte attraverso la scelta consapevole di voler sapere, voler conoscere, ma senza indugiare nell’osservazione (per qualcuno perfino morbosa) della violenza e dell’assenza del bene più prezioso che abbiamo, la vita.

Francesca Rossi

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