Solo gli amanti sopravvivono, la recensione del film di Jim Jarmusch

solo gli amanti sopravvivono filmTrama e recensione – Panoramica di un cielo stellato, vortice di corpi luminosi che si fondono in un disco che gira. La stanza ruota intorno a Eva e Adam e un etereo refrain vibra tra le pareti spoglie: “Non puoi più scappare dall’imbuto dell’amore”. Nella malinconia di notti eterne, questo è il senso ultimo del nuovo film di Jim Jarmusch, “Solo gli amanti sopravvivono”, un dramma sentimentale soprattutto, un accorato e dolente requiem all’umanità cannibalizzata. A intonarlo, tra arpeggi di chitarra e corpi che si sfiorano solamente, sono due “freaks” nella contemporaneità avvelenata dal capitalismo e dalla globalizzazione. Ancora giovani e belli, anche se consumati nel torpore di languide forme, hanno attraversato i secoli come figure ai margini, annegate negli oceani del tempo e alimentate da sacche di sangue trafugate dagli ospedali e da un amore secolare. Vampiri girovaghi, discendenti da una stirpe immortale che guarda da vicino lo “zombismo” dell’umanità e diventa osservatrice esclusiva di un mondo in declino. Lei (Tilda Swinton) vive a Tangeri insieme al suo vecchio amico e mentore Cristophe “Kit” Marlowe, lui (Tom Hiddlestone) è un solitario musicista di Detroit, collezionista di Gibson d’annata e rinchiuso nell’oscurità di una claustrale dimora. Quando decidono di incontrarsi nella fatiscente periferia del Michigan, scoprono che, per quanto il loro amore si sottragga incessantemente all’oblio della memoria, le loro sensibilità, sotto letargico sopore, galleggiano ormai nel vuoto siderale del pianeta terra. Il film stesso è un galleggiamento ipnotico in atmosfere ovattate, immerso nella liquidità rarefatta di note acustiche e melodie soffuse, in pieno stile Jarmusch. L’intero percorso autoriale del regista è fondato sull’ambivalenza del “fermo-immagine” cinematografico: storie di personaggi immobilizzati nel languore esistenziale, eppure lanciati verso illusorie “promised land”. Sintesi ontologica scolpita nel livido bianco e nero di “Daunbaliò”, parabola dolceamara sulla solitudine nomadica di un improbabile trio macchiettistico (Benigni, Lurie, Waits), nell’ “effetto notte” del road movie “Stranger than paradise”, o nel lisergico western frontaliero “Dead Man”, in cui il viaggio è metafora di conoscenza mistica. Questa volta, a sopravvivere “morendo” un po’, in un viaggio che diventa percorso interiore, sono creature sovrannaturali condannate all’anestesia del senso, ma non della coscienza. Per la prima volta, a mettere sotto accusa il clan “terrestre” degli zombie claudicanti, sono non-morti che si aggirano nel degrado di appartamenti scalcinati e lugubri serragli, ricordandoci che una vita senza eroi può essere compensata dall’assoluta dedizione dell’uno per l’altro. L’umorismo grottesco delle precedenti opere del cineasta scompare, lasciando il posto a una sinfonia “a due” intimista e minimale che illumina viottoli bui e cupi interni in un’oscurità senza fine. Il romanticismo gotico di Jarmusch, nel fin troppo abusato stilema vampiresco, affascina come una conturbante malia, raccontando una storia “umana, troppo umana” di alienazione e perdita.

Trailer: http://youtu.be/CKxp71kD9CQ

Vincenzo Palermo

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