La paura di amare e i giorni dell’abbandono

C’è un male atavico che affligge molte donne ed è nascosto nel timore di essere abbandonate. Scavando ancora più a fondo nel nostro cuore ci accorgiamo che abbiamo in realtà paura di amare veramente, prima di tutto noi stesse. Il perché s’insinui nella mente di molte donne questa fobia non ve lo so dire, non sono una psicoterapeuta né una psicologa e inoltre ogni caso è a sé stante. Da donna a donna mi preme affrontare tuttavia un tema che ci riguarda da vicino. Marta aveva dovuto rinunciare ai suoi sogni legando la propria esistenza a quella del marito e dei figli, senza i quali – diceva in preda alle lacrime – non riusciva a vivere ma poi Qualcuno o Qualcosa l’aveva messa di fronte al suo più grande incubo: il consorte l’aveva lasciata per una donna più giovane. Un po’ come accade a Olga del romanzo “I giorni dell’abbandono”, edito da e/o edizioni e scritto da Elena Ferrante che nei suoi numerosi libri tratta spesso quest’argomento attraverso le esperienze di personalità femminili che, per ritrovare se stesse, devono perdersi del tutto. Per superare la paura dell’abbandono e per imparare ad amare veramente, senza possesso, è necessario a volte cadere nel vuoto, vivere il proprio dolore, provare sulla propria pelle quella condizione che tanto si teme. Olga è una mamma e una moglie a tempo pieno, che ha rinunciato a lavorare per accontentare il marito Mario, un uomo egoista e infantile che antepone i propri desideri sessuali ai bisogni della sua famiglia, tanto da abbandonare i figli per molti mesi. Tra Olga e Mario c’è la ventenne Carla che ridona all’uomo una seconda adolescenza.

 

«Dal momento in cui mi ero innamorata di Mario, avevo cominciato a temere che si disgustasse di me», dice la protagonista de “I giorni dell’abbandono”. Per paura di amare e lasciarci andare cerchiamo di avere il controllo su persone e cose perdendo quel contatto con il femminile che è in noi e che, se incanalato, può farci rinascere proprio mentre cadiamo nel buio più totale. «Se fossi partita da lì, da quelle mie emozioni segrete, forse avrei capito meglio perché lui se ne era andato e perché io avevo provato violentemente il rammarico della perdita, un dolore intollerabile, l’ansia di precipitare fuori dalla tessitura di certezze e dover reimparare la vita senza la sicurezza di saperlo fare», scriverà verso la fine Olga che si mostra più matura e concentrata. La paura di amare si mescola con il timore di essere lasciati, mentre l’Ego grida vendetta nascondendo le richieste dell’Anima che vuole solo scoprire se stessa. Ho scritto più volte dei Navajo. I nativi d’America coltivano usi e costumi molto antichi, intrisi di rituali iniziatici. Le ragazze Navajo a dodici anni compiono un rito molto affascinante che chiamano cerimonia del Kinaalda. Dura quattro giorni, nel corso dei quali la fanciulla si trasforma nella Donna che si rinnova con canti e cibi. Il tutto termina con una corsa: la ragazza per fare emergere lo spirito della donna, che aleggia nella Natura, all’alba dell’ultimo giorno corre verso il sole che sorge per accogliere i primi raggi, frutto dell’unione tra il nostro astro, simbolo di mascolinità e di vita, e la Donna che si rinnova. Perché vi racconto questa storia? E che attinenza ha con la paura di amare e quindi di essere abbandonate? Per far decadere l’Ego e qualsiasi smania di possesso, bisogna ritrovare naturalezza e semplicità ricollegandosi con la Natura, perché nulla è per sempre su questo pianeta; ogni cosa muta, tutto scorre, sosteneva Eraclito. E difatti nulla ci appartiene, nasciamo nudi e così torneremo alla terra: possedere una persona, e di conseguenza aver paura di perderla, vuol dire non concedersi mai la possibilità di amare veramente. L’accettazione delle nostre paure ancestrali, magari proprio attraverso i rituali di cui ho scritto poco fa, equivale a decretare la morte di quella parte di noi che ci vuole stabili, fissi, immobili nelle mente e nel corpo.

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In realtà – se ci pensiamo bene – un figlio non è nostro. Un uomo non è nostro. Un genitore non è nostro. Un fratello o una sorella non sono nostri, così come un amico. Amare vuol dire lasciare andare e accogliere quel dolore della perdita, tanto naturale e umano, fino a quando non sentiamo crescere una nuova consapevolezza ed emozioni diverse nel nostro cuore. Amare vuol dire donare una parte di sé all’altro ma senza alcun desiderio di ricompensa, né sacrificio che non fa mai rima con amore. Amare vuol dire essere se stessi abbassando la maschera. Amare vuol dire imparare a lasciare andare la bambina che è in noi per far apparire la Donna, un po’ come fanno le ragazze Navajo. Non è facile, lo so! Ma tentare un nuovo percorso è salutare per noi e per gli altri.

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