Lightning bolt, i Pearl jam tornano a suon di rock

pearl jam“Le vie del rock non finiscono mai”,   “tutte le strade portano al rock” questi, e molti altri detti, potrebbero andare a braccetto con un unico concetto: “Lightning bolt”, il decimo album dei Pearl jam tiene il piede fisso sull’acceleratore del rock, potrà non piacere, potrà deludere le aspettative dei fan dello zoccolo duro ma non si può assolutamente negare che il disco sia percorso da un ritmo che scuote e che trascina. Sicuramente non sarà considerato come il  capolavoro del gruppo  ma, dopo tanti anni di musica eccellente Jeff Ament, Matt Cameron, Stone Gossard, Mike McCready ed Eddie Vedder sono comunque riusciti a reggere il peso e la responsabilità del loro nome leggendario.

pearl jam 2Ad aprire letteralmente le danze è “Getaway”: la voce di Eddie Vedder rende ancora a tal punto da alzare il tiro sempre e comunque. “Mind your manners” è un pezzo molto tirato e veloce mentre “My father’s son” è il brano feticcio dell’album. Comprensivo di punk, folk, funk rock e  blues il disco riesce a diluirsi verso più sentieri e le chiavi di lettura sono quindi molto eterogenee. A tal proposito “Sirens” è uno dei brani più intensi, una ballata destinata a far parlare di sé. La prima titletrack della storia dei Pearl Jam, “Lightning Bolt”, è attraversata da una tensione vibrante mentre “Infallible” scorre via senza guizzi e senza lazzi. “Pendulum” è sicuramente la traccia più suggestiva dell’album, intrigante ed oscura al punto giusto. Ancora ballate dal sapore nuovo e antico al contempo come “Yellow Moon” e “Future Days” ma soprattutto l’aura blues di “Let the records play” e, più di tutte, “Sleeping by myself”, tratta da “Ukulele Song”, l’album solita di Eddie, conciliano il rock e la poesia in un modo che non può far altro che inebriare i sensi, senza i fantasmi del passato nè le aspettative del futuro.

 Raffaella Sbrescia

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