Nell’harem di Gheddafi, in un libro-inchiesta gli orrori in Libia

le prede harem di gheddafiNegli ultimi giorni i giornali hanno riportato le fotografie delle “stanze segrete”, situate nelle residenze del leader libico, nelle quali sono stati compiuti scempi ai danni di ragazze ragazzi spesso giovanissimi.

Abusi sessuali, perversioni di ogni tipo, aborti, uso di cocaina. Queste sono alcune delle nefandezze compiute per decenni, in quelle stanze, dall’uomo che ha guidato la Libia da padrone assoluto, schiacciandola nella polvere della sottomissione e dei suoi aberranti desideri.

Il modo in cui i malcapitati venivano scelti e portati in sotterranei, schiavizzati e tenuti prigionieri per anni, è descritto in tutti i suoi macabri dettagli non solo negli articoli già menzionati, ma soprattutto nel libro-inchiesta di Annick Cojean, “Le Prede. Nell’harem di Gheddafi”, edito da Piemme.

Ve ne consiglio la lettura, per capire fino a che punto possono arrivare la ferocia, la follia e la megalomania di un singolo uomo ma, nello stesso tempo, vi avverto che vi addentrerete in un labirinto oscuro di violenza, brutalità e connivenze che non è stato distrutto neppure con la morte di Gheddafi. Il linguaggio utilizzato è diretto, aspro, feroce tanto quanto ciò che troppi uomini e troppe donne hanno dovuto subire.

Leggendo l’opera di Annick Cojean vi renderete conto che è impossibile, per la Libia, dimenticare. Il leader non c’è più, ma le ferite sono rimaste e forse non si cicatrizzeranno mai più.

Oltre ai danni fisici e morali che le vittime di Gheddafi hanno dovuto subire, infatti, ci sono anche profonde conseguenze psicologiche e morali. Nessuno dei giovani finito in quell’orrore si è davvero riscattato: ancora oggi parlare dell’accaduto è un tabù.

Tutti sono d’accordo nel considerare scellerati gli atti del colonnello, ma è molto difficile trovare qualcuno che voglia parlarne, raccontare, aprire la porta dell’inferno.

Cercare notizie, talvolta, può persino essere pericoloso per la propria incolumità. La Libia non vuole, o forse non è ancora pronta a guardare le ferite, gli squarci su una terra che non riesce a tornare alla vita.

In molti casi le vittime degli abusi perpetrati da Gheddafi e dai suoi fedelissimi sono stati addirittura allontanati dalla società e ripudiati dalle famiglie.

La loro è una “non vita”; non hanno diritto di sfogarsi attraverso le parole, ma sono condannati a ricordare senza poter riversare le immagini che li tormentano nella voce, in un racconto che sia udito da tutti e che li riscatti da una condizione che, di certo, non hanno scelto.

Troppo alto è il rischio di rappresaglie per chi cerca giustizia.

Sembra paradossale, eppure la Libia ha cercato la libertà, combattuto fino all’ultimo per stanare il nemico, il dittatore che l’aveva incatenata a sé, ma non può dirsi davvero libera.

La pace sui campi di battaglia (se di pace si può parlare, visto che il Paese è ancora nel caos) non corrisponde a quella delle coscienze. Una liberazione a metà, dunque, perché la resa dei conti con il passato non è ancora stata compiuta e il futuro è tuttora incerto.

In realtà non potrà esserci un domani né una vera ricostruzione finché non verrà dato modo alle vittime di questi decenni di regime di riscattarsi e ritrovare un posto nella società libica. Ciò che è accaduto è vergognoso, sì, ma non sono i ragazzi e le ragazze caduti loro malgrado nella trappola a doverne portare il marchio infamante. La vergogna è di chi li ha trascinati nel fango. Servirà tempo, ulteriori testimonianze, grande forza di volontà e serietà perché le vittime possano avere giustizia.

Sarà un cammino lungo, difficile, a cui la Libia non potrà sottrarsi e forse le ferite non guariranno, perché il passato non si cancella, ma rimane parte del fluire incessante della storia dell’umanità.

Francesca Rossi

 

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