Elisa Mauro: «Dalla Lettera di Giona T? Un libro per i miei genitori»

elisa mauroElisa Mauro (nella foto alla vostra sinistra) è una giornalista, critico musicale e scrittrice. Il suo primo romanzo “Cosa c’è di mare in me” esce nel 2009 e vince il Premio ALI, oltre ad essere stato finalista del Premio Strega tra le opere inedite. Nell’opera corale “Armonico” (2010) è autrice dell’omonimo racconto “Armonico. Dal grembo al cielo” in cui denuncia, assai prima che scoppiasse il caso dell’Ilva, il dramma della città di Taranto e dei veleni scaricati in mare e nell’aria dall’acciaieria pugliese. Attualmente scrive per riviste di settore, quotidiani e case di produzione. Come ghost-writer scrive e redige articoli, romanzi e narrativa in genere. “Dalla Lettera di Giona T.” è uscito in libreria il 9 aprile.

Da dove, o da chi, sei partita per la stesura del tuo romanzo?

Dalla lettura de “La versione di Barney”, di Mordecai Richler. Ho letteralmente vivisezionato quel romanzo, cercando di entrarci talmente dentro da sentirmi non Barney, ma Richler stesso. Sono una grande appassionata di cultura ebraica e del loro modo di considerare Dio. Noi abbiamo un meccanismo contorto, nel nostro rapporto con lui. Nella loro cultura invece c’è un approccio diverso, molto più diretto.

Proprio a proposito di Dio, nel tuo libro fai molti riferimenti alla religione, a cominciare dal titolo, passando poi per i nomi dei personaggi principali (Elia, Maria, Eveline, Andrea). Come vivi la fede?

 Sono credente non praticante. Credo in questa entità spaventosa (e permalosa!) che è il nostro Dio, che bisogna saper prendere col giusto piglio.

dalla lettera di giona t

E Giona che rapporto ha con lui?

 Giona è un timorato, come tutti noi. Ma a differenza nostra lui ha la possibilità di non avere intercessioni, nel suo dialogo. Lui non parla in realtà con noi, ma con la sua paura più grande, che è Dio. Giona è uno che dice tutto e il contrario di tutto, senza raggiungere mai una sintesi. Questa è la sua caratteristica fondamentale.

So che hai perso i tuoi genitori quando eri molto giovane. Il tuo libro si apre con una scena di morte in cui un padre abbandona il proprio figlio. Dopo il tuo primo romanzo estremamente autobiografico, hai sentito di nuovo il bisogno di partire da una perdita e di parlarne ancora?

Il libro è tutto per i miei genitori. Mi hanno detto “vivi con i nostri occhi”. E’ il giusto merito per le lotte che hanno combattuto e che hanno vinto, anche se non ci sono più. Non ho mai considerato la perdita dei miei genitori come una privazione educativa. Ho sempre cercato di valutare tutto quello che mi è successo come una cosa da non sventolare in faccia agli altri per vittimismo. Il mio primo romanzo è stata una sorta di espiazione dei miei peccati, questo invece deride quel percorso, si fa beffe della morte.

Hai scelto di usare un linguaggio chiaro e diretto. Nelle tue recensioni, invece, c’è una ricerca lessicale e sintattica assai più complessa e articolata. Perché questa scelta? Non dovrebbe essere il contrario?

Spesso si cade nella trappola di pensare che chi legge sia un ignorante. Ma non è assolutamente vero. C’è un patrimonio culturale tangibile e un altro che è silente, che appartiene davvero a tutti noi, genetico. Io sono convinta, perché sono ottimista, che la gente che legge determinati articoli li sceglie, li seleziona e ha bisogno di sentirsi dire parole belle, diverse. Quando si parla di arte, si parla di sacro, quindi non c’è parola più diversa di una parola aulica, che colga Dio in tutte le sue bellezze. Nel romanzo invece scelgo un linguaggio più “basso” perché a parlare è un uomo, di cui ammiro moltissimo il sistema duale di pensiero, “c’è-non c’è”, infallibile, che non lascia margini di errore. Siete delle macchine perfette. Noi donne invece incappiamo nell’errore dell’equilibrismo: restiamo in piedi, ma ci fregate!

Parliamo del giustomodo di scrivere. Pensi che, conoscendo bene le regole della scrittura sia possibile infrangerle per scrivere sbagliando, e quindi davvero come si deve?

Questo è un processo che non finisce mai, perché in realtà le regole che abbiamo studiato sono limitate ai nostri tempi. Tra 20, 40 anni qualcuno imparerà un altro metodo e lo insegnerà agli altri. Già Josè Saramago, uno dei miei maestri, scardinava completamente lo stile. Io mi limito umilmente ad essere una fautrice dell’innovazione scritturale.

Se non avessi incontrato la scrittura, cosa ti sarebbe piaciuto essere?

Io non volevo scrivere, volevo fare la rockstar. Come ogni critico musicale che si rispetti, in quanto musicista fallito, ero frustrata a livelli assurdi e quindi mi sono dedicata alla scrittura. Mi hanno detto “sei brava” e hanno cominciato a pubblicare i miei scritti. Avrei sicuramente amato essere una musicista professionista. Comunque, data la vita che ho subìto, c’erano poche strade: suicidio, droga, la scrittura. Ho scelto di scrivere.

Paolo Gresta

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