Banditi a Viterbo! Racconti di Antonello Ricci

foto © www.bandadelracconto.it
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Viterbo e i suoi racconti, ricordi, antichi intrichi e baratterie, tempi di briganti e uomini di malaffare tra bellezze storiche e una monumentalità fiorente. E’ l’appuntamento “A spasso con i racconti di Antonello Ricci”, terza tappa, dal titolo “Banditi a Viterbo!” , una niziativa a cura di Paper Moon (agenzia di viaggi e T.O) in collaborazione con l’associazione culturale La Banda del Racconto e Davide Ghaleb editore. L’appuntamento è a Fontana Grande, venerdì 14 giungo alle ore 12. Fatti e misfatti di una Viterbo che incomincia a ricordare e a ricordarsi per riappropriarsi a pieno della sua verità storica, fatta di grandi e di piccole cose, di buone azioni e di terribili avvenimenti. Piacevoli e onorabili eventi storici contrapposti da paradossali ed inquietanti posizioni di ribellione sociale. Tutti alla ricerca della verità: da nord al sud, oggi passando per Viterbo, con questa straordinaria pubblicazione di eventi. Dal più recente a quelli più antichi. Ci si ricorda dell’unità d’Italia, così come delle citazioni di Dante, passando per il feudalesimo e l’epoca medioevale. “Con l’unità d’Italia la ex chiesa dei santi Giuseppe e Teresa in piazza Fontana Grande a Viterbo fu trasformata in aula di tribunale. Tra fine Ottocento e la metà del XX secolo, il suo gabbione ospitò gli imputati di alcuni processi collettivi che fecero scalpore nel mondo: da quello alla banda del brigante maremmano Tiburzi, al caso Cuocolo (fu la prima volta contro la Camorra napoletana) al primo grado contro la banda Giuliano. La strage di Portella della Ginestra: forse il primo fra i tanti misteri italiani del secondo dopoguerra”. E come non rivedersi per riconoscersi e ricordarsi negli splenditi versi di Dante, quando immortalò il Bulicame di Viterbo. Chi non sapeva che quegli endecasillabi sono associati al nome di gente poco raccomandabile? Uomini «che fecero alle strade tanta guerra»: briganti cioè, manigoldi famosi al tempo di Dante per la efferatezza delle loro imprese, consumate in lungo e in largo per feudi e città dell’Italia del basso medioevo. Ed ancora. D’altro canto, chi non ha sentito raccontare almeno una volta in vita sua la popolare storiella del bandito Cicoria? Il quale, condannato a morte sul palco di piazza della Morte, col cappio già stretto intorno al collo, trovava la forza per sentenziare: «Aóh, a mme ‘na fregna del genere nun m’era mai capitata!». E poi! La verità! Viterbo è stato un tempo in cui era anche una città di fuorilegge – wanted dead or alive: briganti camorristi banditi separatisti. Un tempo in cui, tra il tramonto del XIX secolo (con il crepuscolo del mitico West nostrano: la Maremma) e l’immediato secondo dopoguerra, tra la fine del feudalesimo ecclesiastico e una pedalata di Fausto Coppi, le immagini della folla in fila a Fontana Grande e quelle del gabbione per gli imputati nella sconsacrata chiesa dei santi Giuseppe e Teresa facevano il giro del mondo, immortalate sulle copertine illustrate della Domenica del Corriere o nei notiziari della Settimana Incom.
E se la notizia della sanguinosa morte del Re di Montelepre corse improvvisa portando incredulità e sconcerto fra il pubblico presente in aula e provocando la reazione di Gaspare Pisciotta (per un’intera generazione d’italiani il caffè avvelenato che lo avrebbe ucciso all’Ucciardone sarebbe finito in proverbio), a Viterbo c’è ancora chi giura che il Robin Hood della Maremma e del Lamone amò frequentare travestito le udienze del processo agli uomini della sua banda, trovando ricetto nelle cantine di una affascinante-inquietante Viterbo underground, tra San Pellegrino e piazza della Morte.

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