La libertà di stampa oggi e l’informazione “manipolata”

La libertà di stampa oggi tra diritto all’informazione e giornalisti come cani da guardia «L’informazione è un pilastro irrinunciabile, un presidio di libertà che abbiamo il compito di promuovere e difendere. Da magistrato ho conosciuto molti giornalisti appassionati che hanno avuto l’ambizione e la serietà di raccontare tutta la verità, consapevoli dei rischi che avrebbero corso. Un giornalista libero e coraggioso è un alleato straordinario tanto nella lotta alle mafie quanto nell’affermazione della cultura della legalità». Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha scelto Facebook per manifestare il suo pensiero in occasione della Giornata per la Libertà di Stampa. Difficile non essere in sintonia con un pensiero così alto. Il giornalista cane da guardia – “watch dog” come dicono gli inglesi – del potere è una figura ancora fondamentale, anche se decisamente rara. Basta dare un’occhiata ai dati dell’ultimo rapporto di Rsf (Reporters sans frontières) per capire senza troppe difficoltà che le belle parole di Grasso sono drammaticamente lontane dalla realtà. “Un anno eccezionale per la censura” è il provocatorio titolo della campagna di Rsf: non fosse una cosa dannatamente seria, anche e soprattutto, per il nostro Paese, ci sarebbe da ridere, e neanche poco. Qualche esempio di censura?

 

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Redazioni attaccate a colpi di granata in Burundi, giornalisti licenziati per un tweet in Turchia, blogger condannati a dure pene detentive in Arabia Saudita, campi militari per la “rieducazione” dei reporter in Thailandia. Vabbè, verrebbe da dire, Paesi e realtà lontani dal nostro. Altre storie, altro senso della democrazia e della libertà di stampa. Probabile, almeno fino a quando non iniziamo a scorrere la graduatoria. Per trovare l’Italia bisogna andare decisamente giù e scivolare con il dito fino al 77esimo posto sui 180 complessivi, quattro gradini più in basso rispetto al 2015. Se poi diamo un’occhiata ai nomi che ci precedono va anche peggio. Più indietro di noi, nell’Unione europea, c’è solo la Grecia. Meglio di noi, invece, spiccano molti Stati meno sviluppati di noi, almeno economicamente, come il Ghana (26esimo), il Burkina Faso (42esimo), Haiti (53esimo), la Serbia (59esima), il Senegal (65esimo), la Tanzania (71esima) o il Nicaragua (75esimo). I migliori? I più liberali Paesi del Nord Europa, e quindi Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia e Danimarca. Ma anche piccole realtà come il Costarica o la Giamaica, rispettivamente sesto e decima, che staccano notevolmente la Gran Bretagna, patria del giornalismo anglosassone, al 38esimo gradino o gli Stati Uniti, fermi al 41esimo posto. In fondo a tutto e a tutti c’è l’Eritrea, “una dittatura dove l’informazione non ha alcun diritto”, si legge nel rapporto di Rsf.

Ma nella lista nera dei 18 peggiori Paesi per libertà di stampa ci sono anche importanti realtà dell’attuale scenario internazionale come Arabia Saudita (165esima), Cuba (171esima) e la Cina (176esima). La beffa è che, come ogni anno, questo rapporto viene diramato, preciso e puntuale, nel giorno in cui si celebra la libertà di stampa. Quasi a ricordarci che, al di là dei soloni di turno e delle belle parole di facciata, la vita dei giornalisti resta difficile, soprattutto quando si sono messi in testa di raccontare sempre e comunque la verità. Certo, il nostro Paese ha una storia di democrazia e libertà ben radicata: è tra i potenti del mondo e punizioni esemplari, retaggi nelle redazioni e licenziamenti di massa non sono all’ordine del giorno. Ma nel rapporto, in riferimento al nostro Paese, si denuncia “un livello molto inquietante di violenze perpetrate contro i giornalisti, come intimidazioni verbali o fisiche o minacce di morte”. E, come facilmente intuibile, i primi a finire nel mirino sono quelli che indagano sulla corruzione o il crimine organizzato. Piccoli e grandi eroi, ahìnoi, sempre più rari, numericamente surclassati dai tanti, troppi colleghi che si autocensurano e che si muovono agilmente tra i paletti ben piantati a terra dall’editore di turno. Balza immediatamente in mente una delle scene chiave di “Fortapàsc” in cui il capo di Giancarlo Siani gli spiega la differenza tra giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati. I primi sono quelli che vanno in giro mettendosi sempre in discussione: rischiano, cercano la verità a tutti i costi, in cambio, non di rado, di poca gloria e stipendi da fame. Gli altri, invece, se ne stanno tranquillamente seduti in redazione davanti a un pc, in attesa che le cose succedano. Non si fanno troppe domande, evitano le curve più pericolose e portano a casa stipendi migliori. Ecco, la libertà di stampa avrà un senso fin quando ci saranno i giornalisti-giornalisti e chi è pronto a dar loro voce e spalle forti per resistere all’assalto.

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