Lino Guanciale, intervista all’attore

Lino Guanciale è diventato, certo, un volto conosciuto e molto apprezzato dello schermo televisivo, ma questa notorietà non l’ha allontanato dalle persone, anzi, né gli ha fatto perdere l’umiltà e il senso di realtà che traspare mentre si racconta. Classe 1979, diplomatosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” nel 2003, ha iniziato a farsi le ossa sul palcoscenico affrontando classici, ma anche testi impegnativi come quelli di B. M. Koltès. Nel 2009 debutta sul grande schermo con “Io Don Giovanni” per la regia di Carlos Saura e da allora comincia a dividersi tra macchina da presa e spettacolo dal vivo. Molti lo hanno scoperto in “Una grande famiglia” (diretto prima da Riccardo Milani e nella terza serie da Riccardo Donna) e con “Che Dio ci aiuti”. In queste settimane è in due serie che stanno andando in onda il lunedì e il giovedì sulla rete ammiraglia Rai, rispettivamente “Il Sistema” e “Non dirlo al mio capo”, dando ottima dimostrazione di come sappia calarsi in più panni e generi, rendendo così merito alla sua professione. La parola a Lino Guanciale.

Il personaggio che interpreti in “Non dirlo al mio capo” si è presentato sin dalla prima puntata come apparentemente odioso, tu con quali aggettivi definiresti il tuo Enrico Vinci, il capo, dal cognome quasi parlante?
È vincente di sicuro almeno sul versante pubblico, ferito visto il suo vissuto traumatico, divertente, forse può essere definito anche onesto. Pur essendo la bestia che è, ha quell’onestà intellettuale di riconoscere quando dall’esterno arrivano delle sollecitazioni che mettono in moto dei processi logici o emotivi. L’ultimo aggettivo che aggiungerei e che può apparire paradossale accanto a “onesto”, sempre intellettualmente parlando, è scorretto.

Lino Guanciale, al di là del flirt che si potrebbe intuire con il personaggio di Vanessa Incontrada, senza spoilerare, c’è qualche elemento che ti ha particolarmente colpito dello sviluppo narrativo e che potrebbe conquistare il pubblico?
C’è senza dubbio il presupposto di registro da commedia che deve tenere sù dodici episodi (in sei puntate, nda) e credo che ci siamo riusciti soprattutto grazie alla buona mano del regista, Giulio Manfredonia. È uno di quei registi per cui è giusto spendere quella frase “ama gli attori” perché dà molta importanza al dialogo con noi. Attraverso il lavoro con lui si è costruito un arco del personaggio – così com’è stato fatto per altre figure – fotografandolo in stati di cambiamento progressivi. Puntata dopo puntata vedrete sensibili spostamenti dalla sua totale posizione di sfiducia nei confronti dell’utilità dei rapporti umani profondi.

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L’aspetto che più è balzato all’occhio di “Non dirlo al mio capo” è il voler sottolineare, con un registro appunto da commedia, come si sia costretti, oggi, a nascondere di avere figli pur di lavorare. In base alla tua esperienza nonostante la giovane età (ha trentasei anni, nda), secondo te c’è altro che siamo costretti ad omettere pur di ottenere un lavoro?
I figli obiettivamente sono un “problema”. Ora, non so quante persone siano mai arrivate davvero, nella storia, a dire di non averne pur di lavorare, è qualcosa che tocca soprattutto le donne ed è dovuto alla disfunzione culturale che espone sempre le donne lavoratrici, e non solo, in una posizione discriminata da parte della civiltà maschiocentrica a cui apparteniamo. Quello che si deve omettere per lavorare è, per esempio, quando bisogna prendersi degli spazi per curare la propria vita privata e sovente si è costretti a trovare delle scuse, è una piccola cosa, però credo capiti a tutti. Un po’, quando questo non si trasforma in assenteismo reiterativo, è un indice di quanto sia difficile conciliare impegni lavorativi che comunque portano alla sopravvivenza e il fatto che la vita sia fatta di altro. Io mi rendo conto di essere in una posizione di favore perché quello che mi piace riesco a farlo; spesso bisogna omettere che non ci piace affatto quello che il nostro capo ci costringe a fare o non si può dire che il lavoro che facciamo non ci piace né fare una proposta per migliorarlo o tante persone sono costrette a prendere la prima cosa che capita pur di sopravvivere. Queste sono ferite che ci si porta addosso. Il lavoro occupa tanta parte della vita di un uomo e di una donna, se non si sta bene lì quel malessere si riflette su tutto.

Siamo in una società che ci dà l’illusione di essere liberi e poi, come sottolinei tu, si è quasi costretti ad autocensurarsi…
Quella in cui viviamo è una società molto complessa, l’unica salvezza viene dai filosofi che cercano delle alternative. Nomi come Agamben o Esposito ci dicono come il sistema di vita in cui siamo immessi ci produce soltanto l’illusione della libertà di scelta, è come se esistesse una grande rete per cui qualunque mossa facciamo, persino quella di contestare il sistema stesso, è programmata per essere neutralizzata, come i topini che si affannano per uscire dal labirinto del laboratorio, ma in realtà ci sono sempre dentro. Da essere umano che cerca di farsi delle convinzioni a partire dal punto di vista di persone che dedicano la vita a riflettere su questi problemi, l’unica soluzione che vedo è la costruzione di una solidarietà interculturale tra tutti quanti i giovani e i più deboli del nostro mondo per cercare di imporre un altro passo. Bisognerebbe cambiare completamente filosofia riguardo, per esempio, al lavoro e allo spazio che deve avere nella vita di una persona. Non è detto che il modello di sviluppo a cui siamo abituati sin da piccoli sia l’unico giusto e percorribile. Ci sono tante riflessioni su come si possano trovare altre maniere attraverso quella famosa filosofia della decrescita di cui si parlava qualche anno fa e che potrebbero forse farci vivere in un mondo più rispettoso dell’ambiente e della libertà personale.

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Riallacciandomi a quello che raccontavi tu, sembra difficile uscire dall’ottica per cui è un lusso fare il lavoro che si ama…
È proprio perché è così difficile che bisognerebbe un po’ liberarsi dalla convinzione che questo nel quale viviamo, anche se non ci piace, sia l’unico mondo possibile. Poi certo, lo dice una persona che adesso fa il lavoro che gli piace in una condizione di stabilità economica non usuale per il panorama. Mi rendo perfettamente conto di come persone che mi sono accanto, amici, i quali, pur lavorando moltissimo almeno quanto me, se non di più, fatichino nel mettere insieme i pezzi della propria vita materiale. È una memoria che ho bene impressa. Fino a qualche anno faticavo tanto, come si suol dire, a campare come tutti quanti quelli che lavorano soltanto a teatro o che alternano teatro e cinema dove in realtà girano molti meno soldi di quanto si pensa. Quando certe difficoltà le hai vissute sulla tua pelle non le puoi dimenticare. Quello in cui viviamo è proprio un mondo che dovrebbe decidere di cambiare corsa.

Lino Guanciale, in questi giorni sei in onda anche con “Il Sistema” in cui sei tra i protagonisti con Claudio Gioè, Gabriella Pession, Antonio Gerardi e tanti altri. È stato evidenziato come sia una serie che parli di Mafia Capitale e quando la stavate girando non era ancora scoppiato il caso. Che tipo di esperienza è stata per te?
“Il Sistema” è un riuscito tentativo di riportare all’interno della tv generalista un linguaggio che si era perso, quello di genere. È importante che la Rai e le produzioni a essa associata continuino in questa direzione perché bisogna saper competere non più solo col mercato interno, ma anche con quello internazionale. “Il Sistema” è partito come un’operazione ambiziosa in particolare dal punto di vista del linguaggio, di tipo cinematografico anche per il tipo di riprese, senza dimenticare il lavoro di recitazione degli attori. Senza dubbio ci sono dei margini di crescita del prodotto, ma credo che determini un precedente importante. Ora sto girando una serie a Trieste, sempre noir-giallo, con dei margini di grossa innovazione sulla carta che stiamo cercando di non smentire nei fatti (la regia è sempre di Carmine Elia con co-protagonista Gabriella Pession, nda). La tv pubblica può riuscire a restituire un ritratto di quella che è la realtà. Nella sceneggiatura de “Il Sistema” ci sono delle cose che potevano magari funzionare meglio, altre sono a fuoco, ma di sicuro è riuscito, secondo me, il tentativo di mettersi al passo col funzionamento della nostra realtà sociale e politica. Alcune cose del meccanismo non le ha inventate “Il Sistema”, sono venute fuori negli ultimi anni a Roma, ma che ci fossero delle dinamiche di un certo tipo era sotto gli occhi di tutti. Gli sceneggiatori sono stati bravi a metterle in campo con un meccanismo da thriller che ha trovato poi conferma nelle carte giudiziarie. La televisione, il cinema e il teatro, con linguaggi diversi, devono rincorrere questo: come parliamo della contemporaneità? Io penso che sotto tanti aspetti la nostra tv pubblica, per prendere la direzione di disimpegno più facile possibile, per molti anni si sia assentata colpevolmente da certe tipologie di lavori eppure “La Piovra” l’abbiamo inventata noi. Bisogna tornare a quella capacità di muoversi su piani e angolazioni diversi.

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Forse è stata questa deriva di cui parlavi ad aver fatto disaffezionare il pubblico e ad aver creato il pregiudizio verso alcune fiction Rai…
Sì, purtroppo ci sono stati anni in cui si è sacrificato sull’altare dell’audience il futuro produttivo della fiction. Oggi si sta innescando un’inversione di marcia e sono lieto di partecipare a questa congiuntura. Il pubblico non è detto che non segua, anzi, più si è sinceri, meno compromessi con modalità rassicuranti, più i risultati possono premiare. Non è detto che certe cose debbano essere appannaggio solo delle grandi tv private, quella pubblica deve testarsi sui vari e molteplici linguaggi anche perché è in grado di farlo.

È molto apprezzabile che tu stia riuscendo a non farti identificare in unico personaggio o incastonare in un solo genere…
Sto insistendo molto su questo. Poi tutti i ruoli che ho avuto è stato perché ho vinto dei provini o mi sono stati proposti alla luce dei lavori fatti in precedenza.

Tu hai fatto tanta gavetta teatrale dopo esserti diplomato alla Silvio D’Amico. Credi che ancor più con la tua generazione si sia creata sempre più osmosi tra i diversi mezzi espressivi?
Assolutamente sì. Il pregiudizio non c’è sempre stato se pensiamo ai grandi sceneggiati degli Anni Cinquanta e Sessanta, si è innescato quando sono cambiati i pesi e i rapporti e le considerazioni di valore tra cinema e tv. Di sicuro è accaduto qualcosa negli Anni Ottanta per cui la televisione è talmente scaduta nell’immaginario che un attore si guardava bene dal farla potendo realizzare lavori cinematograficamente più interessanti. Quando ho iniziato a fare questo lavoro chi faceva teatro non faceva cinema e l’inverso, i campi erano molto delimitati quasi da delle cortine elettrificate. A liberarci è quella cosa che si chiama mercato, anche se da noi non funziona ancora tanto bene. A un certo punto le produzioni iniziano a investire su un canale piuttosto che su un altro perché ci vedono dei margini di maggiore praticabilità per loro. Meno male che questi steccati stanno un po’ cascando perché è uno dei pregiudizi più idioti che l’ambiente potesse ergere e soltanto in un Paese come il nostro, con un mercato asfittico, poteva crearsi perché all’estero questo non accade. Noi ci siamo arrivati un po’ quando è stato evidente che solo di teatro non si potesse vivere (nell’accezione di vivere materialmente del lavoro che si fa, nda), del cinema idem e nella tv si stavano muovendo investimenti. La tv, in Rai soprattutto, si sta facendo molto meglio almeno da alcuni anni a questa parte e tutti ricordiamo “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana.

C’è una curiosità che mi ha colpita: la tua esperienza giornalistica Mostra del Cinema di Venezia, con il gruppo “Cinemavvenire” di Gillo Pontecorvo nel ’98…
A me è sempre piaciuto molto scrivere, avevo mandato un tema per il concorso e mi selezionarono per cui il mio primo festival di Venezia l’ho fatto da giovane reporter e non avrei mai creduto che sarei passato dall’altra parte.

Con il gruppo teatrale con cui lavori da anni state portando avanti un progetto intitolato “Carissimi Padri”. Quali sono stati i tuoi padri artistici?
In Accademia ho fatto due incontri importanti quello con una grande attrice teatrale e televisiva, limitatamente agli sceneggiati che ha realizzato, ed è Marisa Fabbri e quello con Pino Passalacqua. Fuori è stato fondamentale quello con Claudio Longhi, con cui ci siamo trovati, è proprio un compagno di viaggio, da dodici anni progettiamo ininterrottamente teatro cercando di stare su quel solco di politica culturale che credo si percepisca anche in queste risposte. Sempre in teatro dei punti di riferimento sono stati e sono per me Luca Ronconi e Franco Branciaroli che, della sua generazione, credo sia il migliore attore che abbiamo in Italia.

Citi nomi di determinato spessore, non credi che mancherà la figura del cosiddetto maestro alle giovani generazioni?
Dipenderà un po’ da chi è grande adesso riuscire ad avere credibilità nei confronti dei giovani, è sempre mutua la responsabilità. Io lavoro tanto con i ragazzi, mi impegno didatticamente sia con loro che con persone più grandi. Dal confronto che viene fuori, la generazione dei giovani e giovanissimi di oggi non risulta cognitivamente inferiore, è culturalmente diversa, hanno un’attitudine nei confronti della realtà molto differente rispetto alla nostra, però sono molto più stimolabili. Non è una generazione perduta, quella credo che sia un po’ il canto retorico.

Lino Guanciale in un'immagine di "Non dirlo al mio capo"
Lino Guanciale in un’immagine di “Non dirlo al mio capo”

Da cosa nasce questa tua vocazione didattica?
Credo derivi dal background famigliare perché mia madre è stata una maestra e una dirigente scolastica e mio padre è un medico con un piglio didattico molto forte. Se dovessi dirti qual è il mestiere più bello non ti direi l’attore, ma l’insegnante. Quando insegni senti veramente di riuscire a fare quello che si dice il sale della vita, avviene una trasmissione, è un bisogno mio. Io mi rendo conto di migliorare come artista e come persona se mi tengo attaccato alla realtà facendo esperienze così, ho delle competenze che posso cercare di passare a qualcun altro che, a sua volta, mi passa qualcosa. Penso che gli attori oggi debbano impegnarsi sul fronte della formazione perché il pubblico non è eterno, ripopolare i teatri non è soltanto opera dell’ufficio promozione del teatro “x”. Gli attori devono rimboccarsi le maniche andando nelle scuole, nelle carceri, nelle università, nei contesti di socialità forte, cioè gli attori dovrebbero invadere la società civile per chiamarla a ricordarsi che il teatro è un linguaggio necessario per capire delle cose del nostro vivere sociale che si capiscono soltanto attraverso il teatro. Noi della compagnia di “Carissimi Padri” facciamo questo, andando a recitare dovunque all’interno della città di turno perché passi soprattutto il messaggio che il teatro non è un edificio, ma una relazione tra qualcuno che ti racconta qualcosa e tu che lo stai a sentire e tutti hanno bisogno di questo.

Tornando al progetto, invece, puoi raccontarci in che cosa consiste?
Se dobbiamo fare lo spettacolo, ad esempio, a gennaio 2017, un anno prima iniziamo a fare attività laboratoriali, spettacoli di avvicinamento per il pubblico, cicli di conferenze, che ci vedono impegnati come scrittori, attori, guide alla visione così da prepararli e perché di lì a un anno possano anche criticarci meglio. Cerchiamo poi di fare sempre spettacoli in cui lo spettatore non sia soltanto soggetto di una somministrazione teatrale, ma sia soggetto attivo. Il che significa che o gli vengono chieste di fare direttamente delle cose oppure gli viene richiesto uno sforzo immaginativo azzerando di tanto le distanze tra noi che recitiamo e chi sta in platea così da immetterlo il più possibile all’interno delle nostre relazioni del palcoscenico. Tutto quanto è palcoscenico come diceva e ha dimostrato Pirandello e noi cerchiamo di fare questo.

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Quali sono i prossimi lavori che puoi anticiparci?
Nella primavera del 2017 saremo in scena a Firenze e a Bologna con “Carissimi Padri” in “Istruzioni per non morire in pace”, una trilogia sulla belle époque (produzione ERT/Teatro della Toscana, nda). Posso dare appuntamento a metà ottobre a Firenze, presso il Teatro della Toscana, per un atelier con “Carissimi Padri” per gli spettatori che vogliono farsi attori. Si prepareranno con noi durante un weekend e poi il sabato successivo andremo in scena tutti insieme. Quando l’abbiamo fatto, di solito, non scendiamo mai sotto le duecentocinquanta persone. Io poi sarò impegnato in autunno al Teatro Argentina di Roma con uno spettacolo su Pasolini. Rispetto alla televisione dovrebbe andare in onda su Rai Uno, in autunno, “L’Allieva” con Alessandra Mastronardi e tratto dal bestseller di Alessia Gazzola. Uscirà al cinema, credo in estate, “The Space Between”, un’opera prima diretta da un’autrice italo-australiana Ruth Borgobello.

 

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