Crisi in Libia, l’Italia tra interessi e rischi economici

Intervista a Claudio Buzzi, presidente A.I.R.I.L (Associazione Italiani Rapporti Italo Libici), sulle cause della crisi in Libia e in particolare sugli interessi economici dell’Italia e sui rischi che il nostro Paese corre.

Crisi in libia Italia interessi e rischi economiciLa Libia sembra essere ormai diventata a tutti gli effetti territorio di guerra. Un Paese spezzato in due, martoriato dalla lotta tra fazioni diverse. Da un lato le milizie islamiste, legate alla Fratellanza musulmana, insediatesi in Tripolitania e nell’ovest; dall’altro le forse del generale Haftar che controllano la zona est e assediano Bengasi. Alle lotte interne si aggiunge la preoccupante penetrazione dell’ISIS che, sfruttando la debolezza politica e l’assenza di una qualsiasi forma di democrazia, ha conquistato la città di Derna e ha minacciato apertamente l’Italia. I Governi occidentali cercano risposte. Mentre l’Egitto ha deciso di continuare l’incursione via terra, l’Onu ha affermato la necessità di cooperare per raggiungere un accordo volto a creare le basi per un Governo di unità nazionale. Il nostro Paese, distante solo duecento miglia marittime dalla Libia, ha espresso la volontà di avere un ruolo guida nel processo di pacificazione della Libia. Per cercare di saperne di più sulla crisi in Libia e sulle cause che hanno portato alla deflagrazione del fenomeno jihadista, Cultura & Culture intervista Claudio Buzzi, presidente dell’A.I.R.I.L, Associazione Italiani Rapporti Italo Libici, che da anni è attiva sul territorio italiano per difendere gli interessi delle aziende creditrici nostrane. Esperto della realtà libica, Buzzi ci ha spiegato i motivi che hanno causato la crisi politica del Paese africano e che hanno favorito la penetrazione delle milizie dell’ISIS, spiegandoci anche quali potrebbero essere i rischi economici per l’Italia, nel caso in cui la situazione precipitasse.

L’AIRIL dal 2001 si occupa di rappresentare gli interessi delle imprese creditrici italiane che operano in Libia. In base alla sua conoscenza della realtà socio-politica del Paese, come analizza la crisi che sta affliggendo lo Stato africano?

Questa crisi è frutto di un insieme di fattori alcuni anche molto lontani nel tempo. Le specificità della società libica, con la sua storica presenza di cabile (non tribù!), ha sempre esposto il Paese al rischio di scontri interni, ma in questi mesi queste caratteristiche endogene sono state a mio parere sfruttate da “fattori esogeni” che hanno soffiato sul fuoco delle divisioni. La Libia si sta rapidamente trasformando in un altro campo di battaglia dell’enorme ed epocale processo di evoluzione del mondo arabo ed islamico. Lo scontro tra Arabia Saudita, EAU ed Egitto da un lato e Turchia e Qatar dall’altro è all’origine della “seconda guerra civile libica” iniziata in forma di confronto a bassa intensità a inizio estate 2014.

 

Crisi LibiaQuali sono state, storicamente parlando, le cause che hanno portato alla deflagrazione del fenomeno jihadista in Libia?

Il fenomeno della diffusione del ”islam politico” in Libia è frutto diretto, a mio avviso, della lunga dittatura di Gheddafi e della repressione feroce che lo stesso regime ha messo in atto su forme di dissenso. Certo Gheddafi assicurava una relativa tranquillità, ma al costo di ingigantire sempre più la frustrazione di ampie fasce della popolazione che ha poi trovato una sorta di sfogo, come peraltro avvenuto in quasi tutto il mondo arabo musulmano, in una forma politicizzata dell’Islam.

La popolazione libica è sempre stata tollerante ed estremamente ospitale. Dopo la rivoluzione, la gioventù è stata attratta inevitabilmente dalle organizzazioni politiche che fornivano una ricetta semplice, pronta e culturalmente accettabile: l’islam politico. A fronte di uno Stato libico impegnato nella lenta costruzione di vere istituzioni, è stato facile sfruttare l’insofferenza di chi voleva “tutto e subito”. E magari ricevendo in cambio un po’ di soldi e un bel kalashnikov da sfoggiare. L’ISIS credo possa essere interpretata come una evoluzione di questo approccio, un gruppo che vuole presentarsi come una sorta di “elite” di queste organizzazioni destinate “a veri duri”. Il fattore marketing è fondamentale nella vicenda ISIS.

LibiaCi sono delle responsabilità dei Governi occidentali, soprattutto in riferimento al periodo post Gheddafi, che possono aver concorso a creare un’instabilità politica tale da permettere all’ISIS di penetrare nel Paese? Dopo la Primavera Araba, si poteva fare di più per stabilizzare la Libia?

Si può sempre fare di meglio. A mio avviso i Paesi occidentali, e segnatamente quelli europei, hanno fatto tanto. In special modo l’Italia, senza clamore, è stata sempre disponibile e attenta. Forse è mancata una maggiore unitarietà di sforzi che si sono in parte duplicati e sovrapposti, ma che soprattutto hanno aperto la porta ad un approccio segmentato alla società libica a cui avrebbe giovato di più avere un interlocutore unico a livello nazionale.

La Libia rappresenta una porta verso l’Europa, ma soprattutto verso l’Italia. Gli estremisti islamici hanno già fatto delle minacce alla nostra Nazione. Fino a ieri si parlava di un intervento militare, poi bloccato dall’ONU. Sarebbe stata la soluzione giusta a suo parere?

Nella situazione attuale dire proprio di no. Mancano i presupposti politici sul terreno e un quadro di riferimento chiaro. Credo che i mass media dovrebbero cercare un maggior equilibrio nell’affrontare questa questione. La forte impressione è che la crisi della Libia sia parzialmente strumentalizzata per fini di politica interna.

Se la situazione peggiorasse, le conseguenze per l’Italia potrebbero essere gravi anche dal punto di vista economico. Sono molte le aziende italiane che hanno degli interessi in Libia. Cosa potrebbe accadere secondo lei?

In caso di intervento armato dell’Italia, le imprese potrebbero sperare nel medio termine che un futuribile governo libico, dallo stesso intervento sostenuto, riannodi le fila dei diversi programmi e contratti. In compenso ci potrebbero essere enormi problemi di sicurezza da risolvere. Basta pensare a cosa succedeva in Iraq e alle scorte che i contractors fornivano per qualsiasi spostamento. In caso di collasso definitivo, oppure di separazione del Paese, le aziende dovrebbero affrontare la realtà e valutare soluzioni diverse. Ci potrebbero essere scenari di nuovi congelamenti dei beni libici, che potrebbero essere posti a garanzia di eventuali aiuti alle imprese colpite da questa crisi. Rispondere a queste vicende è un problema ormai ricorrente per un Paese come l’Italia che ha mercati importanti in Nazioni in cui il rischio geopolitico è rilevante. Spiace vedere che siamo ancora molto indietro nell’impostare a livello politico una discussione relativa all’adozione di strumenti che permettano di affrontare in modo sistematico queste crisi che si ripercuotono inevitabilmente sulle aziende e sui loro dipendenti.

Siamo ancora in tempo per risolvere la situazione o siamo ormai arrivati a un punto di non ritorno?

Il punto centrale è che sono i libici a dover ritrovare le ragioni di una convivenza pacifica. Niente si può sostituire a questo. Aiutarli vuol dire prima di tutto armarsi di pazienza e mantenere un profilo elevato. Qualsiasi decisione improvvisata presenta il rischio di avere conseguenze assai spiacevoli.

Vittoria Patanè

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