Alessio Boni: il teatro? Un mistero proprio come la vita

Intervista ad Alessio Boni, in questo periodo a teatro con Il visitatore di Éric-Emmanuel Schmitt.

Il visitatore
Il visitatore

Alessio Boni: classe 1966, si diploma nel 1992 all’Accademia D’Arte Drammatica Silvio d’Amico con il maestro Orazio Costa Giovangigli, per poi iniziare una lunga gavetta masticando proprio la polvere del palcoscenico. Al grande pubblico è noto, soprattutto, grazie al ruolo che gli è valso numerosi riconoscimenti (tra cui il Nastro d’Argento): l’indimenticabile Matteo Carati ne “La meglio gioventù” (2003) di Marco Tullio Giordana. Come ha sempre dichiarato, non bisogna ghettizzare il mezzo, per cui spazia dal teatro al cinema e alla tv, senza dimenticare il suo impegno nel sociale – prima ambasciatore Unicef e da alcuni anni collaboratore del Cesvi, un’organizzazione laica e indipendente che opera per la solidarietà mondiale. Lo abbiamo incontrato dopo la replica al Teatro Traiano di Civitavecchia (Roma), dov’è andato in scena con “Il visitatore”, scritto dal belga Éric-Emmanuel Schmitt nel 1993. È stata questa l’occasione per approfondire un testo ricco di sfumature e compiere con l’artista un viaggio, in particolare, nel teatro, sempre così strettamente connesso con la vita.

©Gianmarco Chieregato
©Gianmarco Chieregato

Si sta per concludere la seconda tournée de “Il visitatore”. Ci può raccontare com’è stato coinvolto in questo progetto?

È accaduto casualmente: Federica Vincenti, la moglie di Michele Placido, con il quale ha messo su da alcuni anni una casa di produzione, la Goldenart, aveva in mente questo testo. Placido e Alessandro Haber si conoscono da tantissimo tempo e quindi è stato Haber il tramite, il quale aveva già percepito l’importanza del plot. Mentre portavamo in scena con Gigio Alberti “Art” di Yasmina Reza, mi ha parlato de “Il visitatore”, l’ho letto e ho pensato che fosse un testo potentissimo. D’istinto gli dissi: «ma chi fa Dio?» Non era stato ancora definito l’interprete e lui mi rispose: «ma perché tu lo faresti?» E lì ho espresso il mio entusiasmo di fronte a un personaggio del genere, poi con la regia di Valerio Binasco. Da lì è nato tutto… certo, stavamo cercando dei testi, ma spesso ti arrivano così, naturalmente.

©Gianmarco Chieregato
©Gianmarco Chieregato

Quindi secondo Lei il suo personaggio è Dio?

I primi quindici giorni delle prove, facendo l’analisi del testo col regista, ci siamo posti questa domanda, ma alla fine abbiamo deciso di lasciare la risposta al pubblico. Sia io che Binasco, a un certo punto del lavoro, ci siamo detti: il tuo personaggio è Dio che entra nel corpo di un attore che nascerà molti anni dopo Freud – lo dice anche in una battuta – quindi potrebbe essere anche Alessio Boni, perciò avrà il tono un po’ folle di un attore, nessuna prosopopea divina, il dubbio lo lasciamo al pubblico. L’ateo penserà che quella è la proiezione di Dio nella testa di Freud, in quel momento fragile (siamo nell’aprile del 1938, in una Vienna occupata dalle truppe della Gestapo); un credente fermamente convinto dirà che è Dio che si è fatto uomo per parlare con Freud. L’escamotage interessante di Schmitt non è tanto il punto su Dio, ma l’aver messo due uomini a confronto per parlare della profondità, dell’etica, della morale, della religione, del credere o non credere e dell’essere umano e si tratta di due contrapposti e cioè il massimo della fede e il massimo dell’ateismo. Certo gli va riconosciuta un’intelligenza di scrittura perché un codice come Dio o come Freud viene immediatamente riconosciuto dal pubblico, quel codice serve per il processo dello spettacolo, se avesse scelto un prelato non avrebbe avuto la stessa potenza, doveva “rappresentare” l’assoluto, i due estremi, ed è questo che porta chi vi assiste a pensare: allora il mistero esiste. C’è un botta e risposta tra Freud e la figlia Anna (interpretata da Nicoletta Robello Bracciforti)… lei dice: «l’hai preso?» Freud: «No, l’ho mancato» e lo spettatore si chiede: che cos’ha mancato? E ognuno potrebbe dar la propria risposta: il bello è proprio questo, non è mai definitivo.

Ripensando al mistero, a un tratto il suo personaggio asserisce: «Fino a stasera, pensavi che la vita fosse assurda. Adesso, sai che è misteriosa». Ecco questo fa pensare proprio al mistero del teatro…

Certo il teatro è un grande mistero, si può fare questo gioco perché si è sulle tavole del palcoscenico. L’idea registica di Valerio esalta proprio questa peculiarità, anche la stessa scelta delle luci a vista è per dare l’idea di essere come su un set cinematografico, non c’è il thé nella teiera, tutto è irreale e finto per dichiarare il gioco del teatro. Ma qual è il senso reale del gioco? Nei rapporti tra gli esseri umani. Dov’è che si vede il vero? Quando si parlano e il pubblico si sente, infatti, coinvolto quando interagiamo. Binasco ha dato peso all’intensità degli attori e alla parola, infatti quest’ultima l’ha modificata, ha tolto una scena creando un adattamento ad hoc per noi e lo trovo interessante come processo, senza dover per forza mitizzare il testo, avendo timore di togliere una congiunzione.

La-meglio-gioventù
La meglio gioventù

Sul piano del lavoro attoriale, come si fa a mantenere quell’ambiguità insita nel suo personaggio?

Devolvo quell’ambiguità a voi. Prendo la vostra energia come filo conduttore e, come una sorta di terapia di gruppo, voilà: mi apro e ve la cedo. Più il pubblico reagisce, più io esplodo, ma è così in tutto il teatro, soprattutto in un personaggio come questo perché è tutto e niente, può essere un folle, un grande saggio, onnipotente o giullare… È uno scambio, è un senso di affidamento a se stesso, al proprio corpo e agli altri. Io mi affido a voi, al pubblico, poi certo alla base c’è un lavoro di improvvisazione e di studio con Binasco (che è anche attore), oltre all’interazione con gli altri interpreti, poi si stabiliscono dei paletti e al momento di andar in scena si gioca…

A proposito del teatro di parola: Luca Ronconi, durante la conferenza stampa di presentazione del suo ultimo spettacolo, “Lehman Trilogy”, ha affermato: «sono abbastanza convinto che prima o poi un ritorno al teatro di parola nel modo più alto del termine – ossia non soltanto di lingua, ma di lingua, di significato, di appartenenza – sarà presto necessario». Cosa ne pensa?

Secondo me lo è già e questo testo ne è un esempio, il pubblico anche nei punti cruciali dei monologhi ascolta perché ha bisogno di parlare del senso dell’uomo. Dopo l’edonismo sfrenato, l’essersi avvitato su se stesso, la crisi etica e non solo economica, da un po’ di tempo l’uomo ha ricominciato veramente a riflettere su se stesso perché, forse, non è più così importante l’oggetto, il lusso, ma il vero lusso è avere il tempo di godersi ciò che si è e non ciò che si ha. Credo che si stia arrivando a questo. Io avevo molta paura di questo testo perché a me piaceva, ma finché non abbiamo debuttato non sapevamo se potesse risultare pesante. È magari meno letterario rispetto al testo di base, ma noi non abbiamo tagliato le profondità, le abbiamo asciugate, e, dalle reazioni registrate, mi son reso conto che il pubblico ha bisogno di riandare a fondo, anche perché, o sei un teologo o sei un professore di filosofia o sei in analisi, oppure, nel quotidiano, hai pochissime occasioni per parlare dell’uomo in questi termini. Questo spettacolo non è elitario, becca tutti, si parte dal basso dell’essere umano per arrivare all’alto. Prima di diventare laico o ateo te lo poni quell’interrogativo e questa, insieme ad altre domande che attraversano “Il visitatore”, ce la siam posti o poniamo tutti (anche in modo latente). Con questa crisi economica il dio danaro ha perso la sua forza ed è tornato ad essere importante un dio interiore, si è arrivati a comprendere che l’uomo è più complesso di un “semplice” lavoro, del pagare le tasse, del rapporto solamente lavorativo, ecc… – anche se capisco benissimo che possano essere problemi seri – ed è qui che mi ricollego alla funzione del teatro di parola: forte, potente, che colpisce noi oggi.

Il visitatore
Il visitatore

Una curiosità: fino ad ora ha portato in scena, per quel che riguarda la drammaturgia contemporanea, testi di autori stranieri, c’è qualche testo italiano che l’ha colpita?

Fino ad ora no. Spesso in Italia sono gli attori a scrivere i testi che portano in scena, è difficile che ci siano degli autori italiani che scrivono e poi noi ci impossessiamo di quello che hanno creato. Con ciò non voglio dire che non ci siano autori nostrani validi, credo che non mi sia ancora capitato di leggere quel testo italiano contemporaneo che mi desse il cazzotto nello stomaco. Io cerco qualcosa che possa servire al pubblico, che lo faccia riflettere, divertire, emozionare, poi che sia straniero o italiano… per me la lingua è come la musica, deve essere totale e universale. Non è facile indovinare, tra i testi recenti, quello adatto per il pubblico attuale. Se per un classico il testo in sé non è in discussione, poi certo lo spettatore è attratto da come quello specifico artista metterà in scena quel grande autore; alla drammaturgia contemporanea può essere contestata una virgola o affermare che quel testo non piace, per cui ci si assume un rischio anche nella scelta del testo. Quando quest’ultimo arriva e viene apprezzato è un bel passo, senti di avere il termometro sul pubblico di oggi.

La catturandi
La catturandi

 

Per quel che riguarda il suo percorso di ricerca teatrale con Marcello Prayer che porta avanti, in parallelo, al ruolo di scritturato, può dirci se ci sono nuovi progetti in ballo?

Ci tengo molto a questo aspetto. Subito dopo la conclusione della tournée de “Il visitatore”, che sarà ripreso anche nella prossima stagione, inizio le prove de “I duellanti” tratto dal libro di Joseph Conrad (da cui Ridley Scott realizzò una trasposizione cinematografica nel 1977) e debutteremo al 58° Festival dei Due Mondi di Spoleto il 9 luglio. Si tratta di una co-regia di gruppo: Roberto Aldorasi, Marcello Prayer ed io, in scena saremo io e Marcello accompagnati da una violoncellista. Insieme a Francesco Niccolini, che ha curato la traduzione, stiamo riadattando il testo, vogliamo creare un gruppo teatrale giovane, costituito anche dallo scenografo Massimo Tronchetti e da Francesco Esposito che curerà i costumi. La produzione sarà Goldenart; mentre il Teatro della Pergola di Firenze ci supporterà con gli spazi in quanto laboratorio di drammaturgia sul testo.

Alessio Boni in Zimbabwe ©Chiara Magni
Alessio Boni in Zimbabwe ©Chiara Magni

Cosa può anticiparci rispetto ai lavori cinematografici e televisivi?

Per quanto riguarda il cinema a fine marzo inizio le riprese a Sarnico (Bergamo), dove sono nato, dell’opera prima di Alfredo Fiorillo: “Respiri”. In autunno andrà in onda “La catturandi”, una serie in sei puntate sulla squadra mobile di Palermo, per la regia di Fabrizio Costa, il cui soggetto è stato ispirato al libro “La Catturandi: la verità oltre le fiction” (Dario Flaccovio Editore) del poliziotto che ha catturato i più pericolosi latitanti di mafia, ma poi gli sceneggiatori Rai hanno scritto dando sfogo alla propria creatività e prendendosi licenze.

Maria Lucia Tangorra

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