L’ITALIA CHE SI ADATTA…

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E’ stato presentato questa mattina il 46esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale italiana nell’anno 2012, dal quale si evince che, se da un lato gli italiani stanno cambiando le loro abitudini con un significativo ritorno al passato in alcuni settori, le le istituzioni politiche si sono concentrate con rigore sulla fragilità dei conti pubblici e della nostra credibilità finanziaria internazionale, sulla riduzione delle spese, le riforme settoriali, la razionalizzazione dell’apparato pubblico. I  soggetti economici e sociali sono rimasti soli con le loro affannose strategie di sopravvivenza, anche scontando sacrifici e restrizioni derivanti dalle politiche di rigore. Questa divaricazione può generare poteri oligarchici, da una parte, e tentazioni di populismo, anche rancoroso, dall’altra. Ed è proprio il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, che chiarisce alcuni aspetti del Rapporto : «La nostra lettura, come d’abitudine, è sulla lunga durata. E in questo quadro abbiamo messo in luce la costanza vitale della nostra forza di sopravvivenza. Se ci chiedono di connettere questa scelta di interpretazione all’attualità dell’oggi, possiamo dire quanto segue – spiega  -. Siamo sopravvissuti a venti anni di Seconda Repubblica con governi dichiaratamente decisionisti, nei fatti incapaci di connettersi ai processi reali della società e delle persone. Siamo sopravvissuti a dieci anni di crisi, dal 2001 ad oggi, con nessun intervento di governo che l’abbia significativamente contrastata. Siamo sopravvissuti all’annus horribilis, cioè il 2011, con la caduta verticale del peso internazionale del nostro governo e della stessa nostra autonoma sovranità. Siamo sopravvissuti alla logica di governo altro e pedagogico dell’esperienza del governo tecnico. Sopravvivremo verosimilmente anche ai probabili e/o improbabili governi del prossimo futuro. Viene spontanea la domanda: ma perché dobbiamo sopportare governi in cui tutti vogliono governare, ma nessuno è d’aiuto al nostro stress di sopravvivenza? Forse è ora di trovare un modo di governare che si connetta ai processi reali, in una nuova sperimentazione di unità di governo e popolo».

Riassumendo i temi principali del Rapporto, il direttore generale del Censis Giuseppe Roma ha affermato: «È in atto una reazione alla crisi, seppure differenziata e non ancora in grado di invertire pienamente le tendenze negative. Operano energie in molti settori del sociale e dell’economia, tendenti a ricollocare famiglie e imprese nel nuovo quadro nazionale e internazionale. Non si può non rilevare uno smottamento del ceto medio, dovuto ai problemi lavorativi ma soprattutto al cambiamento nella composizione sociale. Le nuove famiglie sono a più basso reddito (giovani, immigrati) e non riescono a progredire rapidamente. Pertanto le classi medie, che rappresentano da vent’anni (1991-2010) circa il 60 per cento delle famiglie italiane, hanno visto ridurre la ricchezza posseduta dal 66 per cento al 48 per cento del totale. Nonostante tali difficoltà le famiglie italiane operano un riposizionamento su molti fronti. Stanno reagendo utilizzando al meglio ciò di cui dispongono, utilizzano la rete per consumare in modo competente e per risparmiare iscrivendosi a gruppi d’acquisto digitali, e guardano con maggiore serietà alla formazione dei giovani, che ritengono debba essere più professionalizzante a tutti i livelli, dagli istituti tecnici alle università all’estero – precisa -. Le imprese recuperano competitività all’estero ed espandono i mercati di destinazione anche nelle economie emergenti. Avanzano il capitalismo collaborativo, le imprese al femminile, le nuove aziende dell’high-tech, per l’80 per cento nel mondo Internet. La cooperazione rappresenta il 7 per cento dell’economia e negli anni della crisi (2007-20011) ha visto aumentare l’occupazione dell’8 per cento, e pure nel 2012 ha segnato un +2,8 per cento. Restano le incertezze politico-istituzionali. Come un pendolo, dopo un federalismo incompiuto assistiamo a un ricentralismo devitalizzante per il protagonismo dei territori – continua il direttore del Censis -. L’insieme della situazione socio-politica, poi, rischia di scatenare reazioni di rabbia, visto che corruzione, sprechi, evasione fiscale ed elevata pressione tributaria vengono individuate dagli italiani come specifiche ragioni della crisi. Ed è proprio una politica finora in stallo a far perdurare uno slittamento etico da cui pure stiamo cercando di venire fuori. Se non si getta un ponte fra potere e società, che continuano a marciare separatamente, sarà difficile trasformare questi segnali di riattivazione sociale in una vera ripresa».

 

IL RAPPORTO – LE REAZIONI DEGLI ITALIANI

La vendita di oggetti preziosi, il pane fatto in casa, gli acquisti su internet…

2,5 milioni di famiglie hanno venduto oro o altri oggetti preziosi negli ultimi due anni, 300mila  famiglie mobili e opere d’arte, l’85 per cento ha eliminato sprechi ed eccessi nei consumi, il 73 per cento va a caccia di offerte e alimenti poco costosi. Sono alcune delle difese strenue degli italiani di fronte alla persistenza della crisi. Non ultima, la messa in circuito del patrimonio immobiliare posseduto, affittando alloggi non utilizzati o trasformando il proprio in un piccolo bed & breakfast (nelle grandi città, con oltre 250mila abitanti, il fenomeno riguarda il 2,5 cento delle famiglie). E sono 2,7 milioni gli italiani che coltivano ortaggi e verdura da consumare ogni giorno, 11milioni si preparano regolarmente cibi in casa, come pane, conserve, gelati. Anche nei consumi si registra una discontinuità rispetto al passato. Il 62,8 per cento degli italiani ha ridotto gli spostamenti in auto e scooter per risparmiare sulla benzina, nel periodo gennaio-settembre 2012 il mercato dell’auto registra il 25 per cento di immatricolazioni in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e c’è un boom delle biciclette: più di 3,5 milioni di due ruote vendute in un biennio.

Le funzioni del consumo si stanno modificando anche grazie alla diffusione delle nuove tecnologie. Il 14,9 per cento degli italiani è iscritto a gruppi di acquisto online che offrono beni e servizi a basso costo. E nelle decisioni di spesa alimentare il 42 per cento considera molto importanti le informazioni sulla provenienza dei prodotti, collocandole al primo posto tra i fattori che orientano la decisione di acquisto. Il responsabile familiare degli acquisti è soprattutto donna (66,5 per cento), uomo nel 43,9 per cento dei casi al Nord-Est. La casa-patrimonio resta assolutamente maggioritaria nelle scelte degli italiani, ma le necessità contingenti stanno rivalutando l’affitto. Nel 2011 la quota di famiglie in locazione ha raggiunto il 21 per cento e nelle aree metropolitane la percentuale sfiora il 30 per cento. Nel trasporto privato si sta diffondendo la logica del noleggio e del car sharing. Diminuisce la quota di famiglie che hanno più di un’automobile (dal 33,4 per cento al 32,1 per cento tra il 2010 e il 2011), il fatturato dell’industria del noleggio si attesta sui 5 miliardi di euro (+2,2 per cento tra il 2010 e il 2011) e il numero degli addetti è in crescita (+3,2 per cento nel periodo 2010-2011 e +3,3 per cento nel primo trimestre del 2012 rispetto al primo trimestre del 2011).

Con il prolungarsi della crisi e dei suoi effetti sull’occupazione e sul benessere delle famiglie, cominciano a emergere segnali di riposizionamento dei giovani rispetto alle scelte di studio e di lavoro. Nel corrente anno scolastico è aumentato dell’1,9 per cento rispetto all’anno precedente il peso delle preiscrizioni agli istituti tecnici e professionali. Le immatricolazioni all’università sono diminuite del 6,3 per cento e i dati provvisori relativi al 2011-2012 segnano un’ulteriore contrazione del 3 per cento. La crisi ha evidenziato come la laurea non costituisca più un valido scudo contro la disoccupazione giovanile, né garantisca migliori condizioni di occupabilità e remuneratività rispetto ai diplomati. I giovani si indirizzano allora verso percorsi di inserimento lavorativo meno aleatori, dai contorni professionali più certi: tra il 2007 e il 2010 i corsi di laurea di tipo umanistico-sociale (i gruppi letterario, insegnamento, linguistico, politico-sociale, psicologico) subiscono nell’insieme una riduzione del loro peso percentuale sul totale delle immatricolazione di più del 3 per cento (passano dal 33 per cento al 29,9 per cento del totale), mentre i percorsi a valenza tecnico-scientifica (i gruppi agrario, chimico-farmaceutico, geobiologico, ingegneria, scientifico) registrano un +2,7 per cento (la loro quota passa dal 26 per cento al 28,7 per cento). I giovani che hanno deciso di completare la loro formazione superiore all’estero sono aumentati del 42,6 per cento tra il 2007 e il 2010. Con un significativo sacrificio delle famiglie: nell’ultimo anno il 30,3 per cento ha sostenuto costi aggiuntivi scolastici, il 21,5 per cento per un figlio senza lavoro, il 16,1 per cento per un figlio che frequenta una università italiana e il 5,6 per cento per una università straniera.

Il manifatturiero ha subito un restringimento della base produttiva: il 4,7 per cento di imprese in meno tra il 2009 e oggi. Il saldo tra iscritte e cancellate è stato pari a -30.023. Emerge però un processo di riposizionamento in corso. I flussi dell’export italiano sono parzialmente cambiati, orientandosi verso le economie emergenti: tra il 2007 e oggi la quota di esportazioni verso l’Unione europea si è ridotta dal 61 per cento al 56 per cento, mentre quella verso le principali aree emergenti è aumentata dal 21 per cento al 27 per cento. Attualmente la Cina assorbe il 2,7 per cento delle nostre esportazioni, la Russia il 2,5 per cento e i Paesi dell’Africa settentrionale il 2,9 per cento. Negli scambi con l’estero è diminuito il peso del made in Italy (tessile, abbigliamento-moda, alimentari, mobile-arredo), ma è aumentata la penetrazione di altre specializzazioni manifatturiere, come la metallurgia, la chimica e la farmaceutica. Si è ridimensionato il numero delle imprese esportatrici (dal picco massimo di 206.800 unità nel 2006 si è passati a 205.302 nel 2011), ma aumentano gli investimenti in partecipazioni all’estero, che superano oggi le 27mila unità (nel 2005 si era a quota 21.740). Dal 2008 a oggi le strutture commerciali che hanno chiuso sono state più di 446.000, a fronte di poco più di 319.000 nuove aperture. Nella prima metà del 2012 il saldo resta negativo (-24.390 imprese). Ma altri segmenti produttivi registrano segnali di crescita: prosegue l’espansione delle strutture della distribuzione organizzata (dalle 17.804 del 2009 alle 18.978 del 2011) e degli operatori del commercio via web, tv e a distanza (passati da 29.163 a 32.718).

Il dinamismo dell’economia collaborativa e dei segmenti emergenti. Ci sono porzioni del sistema produttivo che non sono rimaste immobili di fronte alla crisi. C’è il sistema delle imprese cooperative, cresciute del 14 per cento tra il 2001 e il 2011, attestandosi a poco più di 79.900 unità, ancora in grado di generare occupazione: +8 per cento di addetti tra il 2007 e il 2011, a fronte del -1,2 per cento degli occupati in Italia, e +2,8 per cento anche nei primi nove mesi del 2012 (+36.000 addetti rispetto all’anno precedente). Ci sono le imprese femminili, oggi pari a 1.435.000, il 23,4 per cento del totale delle aziende italiane: a settembre 2012 si sono ridotte appena di 593 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte di una diminuzione di oltre 29.mila imprese guidate da uomini. C’è il sistema della media impresa, che conta 3.220 aziende, con un contributo del 15 per cento alla produzione manifatturiera, che arriva al 21 per cento se si considera l’indotto: negli ultimi dieci anni l’aggregato dei bilanci è rimasto sempre in utile, grazie anche al fatto che il 90 per cento esporta, con una incidenza del 44 per cento  delle vendite all’estero sul fatturato complessivo. C’è poi il settore delle Ict, in particolare delle applicazioni Internet: nelle circa 800 start-up del 2011 l’età media degli imprenditori è 32 anni. E poi le green technologies: si stima che il 27 per cento delle imprese industriali abbia effettuato investimenti in questo comparto, così come il 26,7 per cento delle imprese di costruzioni, il 21 per cento delle imprese di servizi, fino a punte di quasi il 40 per cento  tra le public utilities. La logica biomediatica spinge l’industria digitale. Siamo entrati nell’era biomediatica, in cui la miniaturizzazione dei dispositivi hardware e la proliferazione delle connessioni mobili ampliano le funzioni, potenziano le facoltà, facilitano l’espressione e le relazioni delle persone. L’utenza del web in Italia è aumentata di 9 punti percentuali nell’ultimo anno, portando il tasso di penetrazione al 62,1 per cento della popolazione nel 2012 (era il 27,8 per cento solo dieci anni fa, nel 2002). Gli smartphone di ultima generazione sempre connessi in rete arrivano al 27,7 per cento di utenza (e la percentuale sale al 54,8 per cento tra i giovani), con un incremento del 10% in un anno. Quasi la metà della popolazione (il 47,4 per cento, percentuale che sale al 62,9 per cento tra i diplomati e i laureati) utilizza almeno un social network. E le applicazioni del web permeano ormai ogni aspetto della nostra vita quotidiana: si usano per trovare una strada (lo fa con il pc o lo smartphone il 37,6 per cento delle persone con accesso alla rete, una quota che sale al 55,2 per cento tra i più istruiti), l’home banking (rispettivamente, il 25,6 per cento e il 41,2 per cento), fare acquisti (rispettivamente, il 19,3 per cento e il 28,1 per cento), prenotare viaggi (15,9 per cento e 26,2 per cento), cercare lavoro (11,8% e 18,4%), sbrigare pratiche con uffici (9,6% e 14,1%), prenotare una visita medica (6,6% e 8,5%). La spesa per il traffico dati con telefoni cellulari continua a crescere, fino a poco meno di 5 miliardi di euro nel 2011 (+8,9% rispetto all’anno precedente), superando così la soglia del 50% rispetto agli introiti da servizi di fonia vocale (l’incidenza era del 25% solo nel 2005). Nel primo trimestre del 2012 i terminali smartphone e tablet in circolazione erano 39,4 milioni, a metà anno le schede sim utilizzate per il traffico dati hanno sfiorato la cifra record di 21 milioni, con un volume di traffico dati sulla banda larga mobile che ha compiuto un balzo del 36,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

L’immobiliare in crisi riparte dalla domanda abitativa. A fine anno le transazioni immobiliari si attesteranno sulle 485.000 unità, tornando così ai valori precedenti a quelli del ciclo espansivo, che arrivò nel 2006 a registrare il picco di 870.000 compravendite. Nel periodo 2008-2011 il numero di mutui per l’acquisto di abitazioni è diminuito di oltre il 20 per cento rispetto al quadriennio 2004-2007. Nel primo semestre del 2012 la domanda di mutui ha fatto registrare un’ulteriore contrazione del 44% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono però 907.000 le famiglie intenzionate a comprare casa nel 2012: erano 1,4 milioni nel 2001, sono poi scese a circa 1 milione nel 2007 e il consuntivo per il 2011 è stato di 925.000. Nel 2011 le famiglie che sono riuscite a realizzare l’acquisto sono state il 65,2 per cento, ma quest’anno scenderanno al 53,5 per cento (il 45,7 per cento nei comuni capoluogo). Gli acquirenti sono in prevalenza già proprietari (8 su 10), per due terzi sono famiglie con due percettori di reddito, per il 61 per cento appartenenti al ceto medio, per il 26 per cento collocati nella fascia di reddito alta, per il 13 per cento con reddito medio.

Il federalismo incompiuto genera «ricentralismo». La percezione del peso delle politiche nazionali è aumentata nell’ultimo triennio, ma il livello regionale e locale viene comunque individuato come quello più importante dal 38 per cento dei cittadini. Il forte legame degli italiani con il territorio è confermato dal fatto che il 92,8 per cento dei maggiorenni ritiene che la propria regione abbia elementi di specificità che la distinguono dalle altre. La maggioranza (il 65,9 per cento) dichiara di seguire con attenzione la politica a livello comunale. E anche sullo spinosissimo tema dei servizi sanitari la maggioranza dei cittadini si è espressa a favore dell’attribuzione alle Regioni di maggiori responsabilità: il 57,3 per cento lo considera un fatto positivo, soprattutto per la vicinanza con i problemi locali, e solo il 30,5 per cento è di parere contrario, soprattutto per il rischio che si accentuino le disparità territoriali. Lo smottamento del ceto medio. Il reddito medio degli italiani si riduce a causa del difficile passaggio dell’economia, ma anche per effetto dei profondi mutamenti della nostra struttura sociale, che hanno affievolito la proverbiale capacità delle famiglie di produrre reddito e accumulare ricchezza. Negli ultimi vent’anni la ricchezza netta delle famiglie è aumentata del 65,4 per cento grazie soprattutto dall’aumento del valore degli immobili posseduti (+79,2 per cento). I redditi, al contrario, non han per cento subito variazioni: negli anni ’90 il reddito medio pro-capite delle famiglie è aumentato, passando da circa 17.500 a 18.500 euro, si è mantenuto stabile nella prima metà degli anni 2000, ma a partire dal 2007 è sceso ai livelli del 1993: -0,6 per cento in termini reali tra il 1993 e il 2011. Negli ultimi dieci anni, la ricchezza finanziaria netta è passa da 26.000 a 15.600 euro a famiglia, con una riduzione del 40,5 per cento. La quota di famiglie con una ricchezza netta superiore a 500.000 euro è praticamente raddoppiata, passando dal 6 per cento al 12,5 per cento, mentre la ricchezza del ceto medio (cioè le famiglie con un patrimonio, tra immobili e beni mobili, compreso tra 50.000 e 500.000 euro) è diminuita dal 66,4 per cento al 48,3 per cento. E c’è stato uno slittamento della ricchezza verso le componenti più anziane della popolazione. Se nel 1991 i nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni detenevano il 17,1 per cento della ricchezza totale delle famiglie, nel 2010 la loro quota è scesa al 5,2 per cento. Un ulteriore elemento che determina la riduzione del reddito medio è la quota rilevante di famiglie immigrate (il 6,6 per cento del totale), per il 45,1 per cento con un reddito inferiore a 15.000 euro annui.

Reazioni di rabbia alla crisi della politica. Il crollo morale della politica e la corruzione sono ritenute le cause principali della crisi: lo pensa il 43,1 per cento degli italiani. Segue il debito pubblico legato a sprechi e clientele (26,6 per cento) e l’evasione fiscale (26,4 per cento). La politica europea e l’euro vengono dopo (17,8 per cento), così come i problemi delle banche (13,7 per cento). Il sentimento più diffuso tra gli italiani in questo momento è la rabbia (52,3 per cento), poi la paura (21,4 per cento), la voglia di reagire (20,1 per cento), il senso di frustrazione (11,8 per cento). Le paure per il futuro sono innanzitutto la malattia (35,9 per cento) e la non autosufficienza (27 per cento), poi il futuro dei figli (26,6 per cento), la situazione economica generale (25,5per cento), la disoccupazione e il rischio di perdere il lavoro (25,2 per cento).

Lo slittamento etico. Il 74 per cento dei cittadini europei è convinto che la corruzione sia un problema grave nel proprio Paese, ma in Italia la percentuale sale all’87 per cento. Il 47 per cento degli europei ritiene che negli ultimi tre anni la corruzione sia aumentata, ma in Italia tale percezione sale al 56 per cento. Il 46 per cento degli italiani, contro il 29 per cento della media Ue, afferma di essere stato colpito personalmente dalla corruzione nella propria vita quotidiana. Secondo un’indagine del Censis, per la maggioranza degli italiani in futuro aumenteranno i comportamenti scorretti per fare carriera (lo pensa il 64,1 per cento), l’evasione fiscale (58,6 per cento), le tangenti negli appalti pubblici (55,1 per cento) e la mercificazione del corpo (53,2 per cento).

Una protesta senza rappresentanza. Il doppio tsunami della crisi economico-finanziaria e del crollo reputazionale di forze politiche e istituzioni ha investito i politici della Seconda Repubblica. Nell’ultimo anno i partecipanti a iniziative di protesta contro la politica sono stati il 4,1 per cento della popolazione (fra i giovani la quota sale al 13 per cento). Questa forte disponibilità dell’opinione pubblica all’indignazione e alla mobilitazione «contro» si iscrive nel contesto più generale di crisi delle democrazie rappresentative che attraversa gran parte delle società europee, ma assume in Italia caratteri più radicali e una diffusione più consistente.

LE REAZIONI

Per il Codacons sono dati da Terzo mondo. «Il Censis fotografa perfettamente la crisi e le cifre rese note oggi dimostrano che ormai il 40 per cento delle famiglie fatica ad arrivare a fine mese dato che ha dovuto rinunciare ad un viaggio, all’acquisto di articoli di abbigliamento o calzature e a pranzi e cene fuori casa. Non basta più, insomma, ridurre gli sprechi ed andare a caccia di offerte. Il ceto medio ha dovuto rinunciare definitivamente al proprio tenore di vita», affermano dal Codacons. Insomma la grave crisi che «si sta attraversando è una crisi di consumi, dalla quale non si potrà uscire fino a che si tassa all’inverosimile il ceto medio. Il Governo ha il dovere di fare immediatamente un dl antipovertà che sposti la tassazione verso i più ricchi, rispettando finalmente l’articolo 53 della Costituzione, in modo che il sistema tributario sia informato a criteri di progressività. Basta, quindi, con l’aumento di quelle tasse, come l’Iva, che colpiscono proporzionalmente, o peggio ancora indistintamente, ricchi e poveri». Inoltre il Codacons chiede «il congelamento di tutti gli aumenti previsti e di tutte le tariffe pubbliche: dalle multe del Codice della strada al canone Rai, dai pedaggi autostradali alle tariffe di acqua e rifiuti. Solo così potrà essere salvaguardato il reddito reale delle famiglie». «Ogni euro di export agricolo ha un effetto trainante e produce ben 4 euro di vendita all’estero di prodotti trasformati. Ciò dimostra che l’agricoltura ‘di punta’ cresce e può svilupparsi ancora di più, con un effetto trainante per la ripresa economica del Paese», commentano invece da Confagricoltura, secondo la quale «occorre dare il giusto peso economico al settore e decidere d’imboccare la strada della competitività curando i mali ‘endemici’ del sistema agricolo attuale». «L’Italia deve puntare su un’ agricoltura più organizzata, più compatta, meno dispersa sul territorio, fatta di unità produttive dotate di maggiore potere di mercato, capace di promuovere e costruire reti flessibili di conoscenza e di competenze». Il rapporto presentato dal Censis «fa il punto sui più efficaci modelli di organizzazione del tessuto d’impresa e sui sistemi a rete come strumenti per innescare la crescita». «Le nostre imprese associate, meno individualiste, che sono state capaci di attivare un’innovazione non limitata al solo aspetto produttivo e che hanno messo in pratica i vantaggi di lavorare in network – sottolinea Confagricoltura – sono la dimostrazione che l’agricoltura, pur in un contesto di mercato molto difficile, continua a crescere e, comunque, regge meglio alla di crisi».

 

 

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