Lo specchio

©Pina Arfé
©Pina Arfè

 Non avrei mai immaginato che quella donna che entra di sfuggita in un angoletto, in basso, dello specchio che ho di fronte, con lo sguardo stravolto dalla sorpresa di apparirmi e impaurito dall’identità aliena – la mia realtà – che sembra appartenerle, sia io, proprio io, apparsa a me al di fuori di ogni previsione. Non ero preparata. Oggetto di me stessa, oggetto di un soggetto. Essere e, ugualmente, essere altro.

   Quell’aria, poi, in fin dei conti, propria di chi si scusa per il vizio di apparire, ora a destra, ora al centro, nello specchio, malcapitata in questo istante, ma in altri, invece, abbastanza soddisfatta, quella di chi ha rimesso al posto giusto – un po’ di trucco qua, un po’ di biondo là – tutti i lineamenti, è sempre mia. Sono forse io quel contorno, riempito di colore, di una totalità infine ricomposta, insieme alla voglia quasi estrema di passare orgogliosa tra gli sguardi, come se avesse ritrovato pure, nel tempo dello specchio, la sua vita alienata nella paura della morte? Sono io quell’altra, o l’altra è solo questo specchio? Cosa è mai quest’oggetto che possiede il privilegio di generare immagini con la concretezza del mio corpo, trasformando in ‘fenomeno’ il mio modo proprio di essere reale?

   Di là non c’è il mio corpo, ma una realtà puramente immaginale e priva di coscienza. Non possiede spazio né pensiero. Se sto qua, sono carne e spirito, materia e intelligenza; se sto là, sto in esilio dal mondo degli oggetti, esterna al corpo stesso, a me che son soggetto. Di qua penso. Di là sono immagine sensibile, là dove non si vive e non si pensa. Sono forma. Ma sono pure ‘cosa’? La mia mano è al di là: ma può provare ad accarezzarmi? Chi è quello straniero? La mia carne o la mia forma? In esso svaniscono corporeità e spiritualità, in uno spazio di esilio indolore che deriva dall’una e che alimenta e rende possibile la vita dell’altra. Ma essendo ancora io quel corpo, sono io quel sensibile extrareale – immagine/finzione assolutamente esterna alle anime e alle cose – inserito non solo in questo luogo, il mondo mio, ma anche in quel fuori assoluto, un iper-spazio che non coincide affatto con il mondo?  “Uno specchio – scrive nel Medioevo Alberto Magno – ricevendo la nostra immagine, non aumenta di peso né di volume”. Ogni frammento di uno specchio rotto, inoltre, contiene la mia immagine intera, per niente frammentata, cioè anche se un’immagine esiste nello specchio come se ne occupasse un solo punto, essa mantiene la forma o l’apparenza delle dimensioni di un corpo naturale. E’ forse un puro nulla o un fatto puramente relativo? Ma perché continua a esistere anche al di fuori dello sguardo?

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Pina Arfè

   Il luogo del sensibile, il terzo spazio che non coincide né con lo spazio degli oggetti né con la mente dei soggetti – l’esistenza di una forma, privata della sua materia – è il medio, capace di accogliere le forme in modo immateriale. Un medio è un essere che ha in se stesso un supplemento di essere, che è la ricezione stessa, una forma di passione, come diceva Averroè, che non trasforma in senso materiale o qualitativo la forma che riceve, ma è ‘affetto’ da un’immagine senza subire alcuna trasformazione né propria né dell’oggetto ricevuto. Così l’aria diventa sinfonia pur rimanendo aria, quando arriva all’orecchio ricevente.

  Ogni medio, ogni recettore è tale solo grazie al proprio vuoto ontologico. Esso è la capacità di non essere ciò che è capace di ricevere. Qualsiasi ente può divenire medio: l’aria, l’acqua, lo specchio, la pietra, i corpi. Ma il medio è luogo di separazione. La visibilità di una cosa è separata dalla cosa stessa. Così la mia immagine nello specchio esiste, separata da me. Ma ancora mia. Moltiplicata. Io esisto qua e là. Divento immagine attraverso lo spostamento che mi moltiplica. La riproduzione delle forme è la vita naturale delle immagini. Nello specchio il sensibile (l’immagine) è conoscibile come ciò che si oppone frontalmente ai corpi e ai soggetti. Anche il pensiero è una forma di moltiplicazione? Riprende Averroè: “Affinché lo spirituale possa afferrare, appropriarsi del corporeo, è necessario un termine medio”. Nasce un nuovo ‘cogito’: non sono più là dove esisto né là dove penso, ma esisto là dove sono sensibile. E’ come dire che la conoscenza di sé nasce dalla separazione dal sé.

   Dall’alienazione?

   Ma mentre sono dall’altra parte, nello specchio o nell’immaginazione, io continuo a esistere di qua e conservo la mia forma. Di conseguenza, l’immagine non mi priva della forma ma la moltiplica. Anche il pensiero – la vita psichica del   sensibile – è una forma di moltiplicazione. La parola, l’udito, la visione, tutta la nostra esperienza, sono un’operazione di moltiplicazione del reale.

Pina Arfé

 

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