L’emancipazione femminile: ecco cos’è

Avevo cinque anni e non sapevo nulla di emancipazione femminile. Mi guardavo allo specchio e mi piacevo, con i miei occhi blu e le lunghe treccine bionde. Adoravo le gonne e mi rifiutavo categoricamente di indossare i pantaloni, perché ero orgogliosa di essere una femminuccia. I bambini la sanno veramente lunga. Ero propensa all’ascolto e riflessiva: mentre gli adulti parlavano a bassa voce accanto al camino, io tendevo l’orecchio per saperne di più. Fingevo di giocare con la mia Barbie e ascoltavo le loro storie, immaginando scenari che facevo miei. Mi sono rimaste impresse vicissitudini che riguardavano donne di un passato non proprio remoto, quando alcuni uomini si organizzavano in gruppo per rapire le loro prede e costringerle, dopo averle violentate, a sposarli. Quegli aneddoti, che mi facevano rabbrividire nonostante la mia tenera età, mi vennero in mente qualche anno più tardi. Era primavera, faceva caldo, il cielo era stellato mentre in televisione andava in onda la miniserie televisiva “La Ciociara”, diretta da Dino Risi di nuovo con Sophia Loren. Cesira mi ricordava le donne d’Irpinia umiliate nel loro orgoglio, di cui nessuno osa ancora parlare in pubblico, né scrivere, forse per vergogna o per un senso di colpa collettivo. Sono cresciuta con il desiderio di rendere giustizia a quelle anime emarginate e ferite che avevano avuto la sfortuna di nascere in una società in cui solo i figli maschi erano una benedizione, un po’ come accade oggi in molte culture asiatiche e africane.

Un'immagine della miniserie
Un’immagine della miniserie

 

Ho preso coscienza del lungo processo per l’emancipazione femminile molto più tardi, a Scuola e poi all’Università. Non avevo più le trecce e i miei capelli erano diventati di un castano chiaro ma la mia curiosità era pressoché intatta. Sui banchi ho conosciuto non solo donne, immaginarie e reali, che si sono battute per altre donne, ma anche uomini sensibili, innamorati della vita, che sono riusciti a rendere possibile almeno su carta la parità di genere in Occidente. E chissà perché da qualche giorno il nome di Ibsen mi ritorna spesso in mente. Il drammaturgo scrisse “Casa di Bambola” nel 1879 durante il suo viaggio in Italia creando uno dei personaggi femminili più enigmatici della Storia della Letteratura Teatrale. Nora, incastrata nella menzogna delle convenzioni sociali e morali, in nome della sua libertà e rispettando la propria natura, si ribella e lascia il marito preoccupato solo di salvaguardare la reputazione. La Letteratura è colma di figure femminili che hanno lottato per il proprio diritto di scelta, rompendo quegli schemi mentali nocivi che sono un po’ come le sbarre di una prigione dorata… la casa della bambola appunto, dove viveva una marionetta gestita da un crudele burattinaio. Alcune di loro per difendere la Vita hanno dovuto rinunciare a essa; è il caso di Emma Bovary o di Anna Karenina. Rita Levi Montalcini nel suo illuminante “Elogio dell’Imperfezione” scrive che «non bisogna mai rassegnarsi, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi». Come?

Rita Levi Montalcini
Rita Levi Montalcini

Come possiamo, noi figlie degli anni Ottanta e Novanta, continuare quel percorso di emancipazione femminile intrapreso dalle nostre mamme e nonne che gradualmente, un passo per volta, ci hanno lasciato in eredità molto più di quello che potevamo immaginare? Ritengo che la strada verso la vera emancipazione delle donne sia lunga e tortuosa, perché a metà del cammino ci siamo fermate. Mi spiego meglio. Secondo alcune teorie, a furia di indossare gli occhiali, l’occhio del miope si allunga e il difetto visivo aumenta sempre di più per un processo che si chiama accomodazione. Ebbene, noi donne ci siamo accomodate e abbiamo lasciato le nuove generazioni senza una guida né un progetto. Per continuare l’opera delle nostre antenate, dobbiamo avere il coraggio non tanto di osare quanto di conoscere noi stesse, riscoprendo quel femminile sconosciuto che dimora nella nostra psiche. Clarissa Pinkola Estés nel libro “Donne che corrono con i lupi” afferma che in ogni donna c’è una natura selvaggia che se soffocata ci rende aride, poco creative, insoddisfatte, timorose, insicure, ansiose. Riappropriandoci della straordinaria forza vitale dell’energia femminile, possiamo imparare a camminare nelle tenebre con coraggio perché il nostro intuito ci suggerisce che a breve ricomparirà la luce. Rinnegando la nostra femminilità e adeguandoci alle logiche (soprattutto lavorative) maschili che non ci appartengono, assecondiamo le tendenze negative di quest’epoca nevrotica, in cui conta solo l’apparire, e facciamo un grande torto a tutte quelle donne che si sono battute per la Libertà e per l’emancipazione. Andiamo piuttosto avanti nei vari ambiti (dal lavoro al privato) con Amore, rispettando la nostra natura creativa e intuitiva. «Quando facciamo valere l’intuito, siamo come una stella; guardiamo il mondo con migliaia di occhi», suggerisce Clarissa Pinkola Estés che aggiunge: «la donna selvaggia sta nelle viscere e non nella testa», perciò «ogni volta che chiamiamo l’anima è garantita una crescita». Questa per me è la vera emancipazione femminile.

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