Salvatore Esposito da Gomorra a Zeta, l’intervista

Ancora un’altra chicca dalla 14esima edizione del Salento Finibus Terrae svoltosi dal 22 al 29 luglio in Puglia. Questa volta tocca a Salvatore Esposito. Gli spettatori hanno in mente la cresta e gli occhi neri e feroci di Genny messi in campo per “Gomorra – La serie”. Quando lo incontriamo Salvatore Esposito si dimostra ben disponibile a questa intervista nonostante l’ora tarda. Si sono appena concluse la proiezione di “Zeta” di Cosimo Alemà e la premiazione, dove l’attore ha ricevuto il Safiter. Dopo un bagno di folla, ci vediamo in una location vicinissima alle famose terrazze di Polignano a Mare pronti a far un viaggio ideale tra i suoi esordi, ciò che l’ha portato al successo e i progetti futuri. La parola a Salvatore Esposito che in questa intervista si racconta.

Durante l’incontro, alla presenza del pubblico, hai accennato all’idea di approfondire anche il canto dopo l’immersione nel mondo del rap con “Zeta”.
È stata un’esperienza diversa, soprattutto perché da fan del mondo del rap, non avrei mai pensato in vita mia di dover interpretare un rapper, è stata sicuramente una bella sfida. Mi auguro vinta. Stiamo parlando di un film che racconta un po’ i giovani di oggi, ma anche quelli delle giovani generazioni, quello che cambiava era il rap, magari c’era il rock and roll, poi la dance, ma il filo comune era la musica.

 

©TTAgency
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Pensando al tuo percorso mi hanno colpita tantissimo gli inizi teatrali, tra l’altro con spettacoli in inglese. Puoi raccontarci qualcosa a riguardo?
Il mio primo musical l’ho fatto a sette anni, dove interpretavo Fred Buscaglione. È stato un percorso fatto di tante cose amatoriali. Gli spettacoli in inglese nascono da un istituto che faceva corsi in inglese, il quale chiese alla mia scuola, il liceo tecnico commerciale con indirizzo linguistico, di preparare una rappresentazione in inglese e così preparammo “L’importanza di chiamarsi Ernest” e “Robin Hood”. Ho concluso il percorso scolastico e ho cominciato a lavorare. Circa sei anni fa decisi di lasciare il mio impiego al Mc Donald’s trasferendomi a Roma, dove ho iniziato a studiare recitazione con Beatrice Bracco.

Si può dire che la Bracco ne abbia formati tantissimi…
Lei è scomparsa quasi tre anni, riusciva a trasmettere il senso reale di quest’arte ossia un lavoro che va fatto giorno dopo giorno, con estrema tranquillità e umiltà, tenendo presenti il rigore e le tecniche necessari per creare i personaggi.

Non hai notato differenze con le impostazioni “da accademia”?
Io non ho frequentato l’accademia per cui non so dire che tipo di impostazione abbia, però, è un dato di fatto che quando ti approcci alla recitazione con un metodo Strasberg o Stanislavsky che dir si voglia riesci a lavorare molto di più su quelle che sono le emozioni che ricrei. Invece, troppo spesso con la tecnica teatrale tu sei costretto a ricreare tecnicamente un sentimento, un gesto e un’azione e al cinema ti porta a essere finto. Per questo, forse, chi ha un’impostazione molto più teatrale fa difficoltà, anche se la recitazione è la stessa, è come parlare la stessa lingua, ma con dialetti diversi.

Salvatore, in tv hai cominciato subito con serie di genere come l’hai vissuta?
È stato un passaggio in primis formativo, ma anche fondamentale. Ho fatto tre/quattro pose ne “Il clan dei camorristi” (serie tv andata in onda su Canale 5 nel 2013, diretta da Alexis Sweet e Alessandro Angelini, nda) che è stato per me l’approccio iniziale al mondo cinema. Quei pochi giorni di lavoro mi hanno cominciato a far capire cosa fosse il set, cos’erano i tempi e come funzionavano i vari aspetti. Ha avuto una funzione di allenamento per ciò che è arrivato dopo con “Gomorra – La serie” e “Lo chiamavano Jeeg Robot”.

Salvatore Esposito in Zeta
Salvatore Esposito in Zeta

Quest’ultimo, il film di Mainetti, è stato un caso, come se avesse costituito un solco nel nostro solco. Come l’hai vissuto come artista e spettatore?
Si tratta di una nuova tendenza. Non so se “Gomorra” ha risvegliato il lato artistico di tanti autori e registi. Jeeg Robot è stata un’esperienza folle da parte di Gabriele Mainetti, ma vincente perché il pubblico ha reagito benissimo. Ciò dimostra che, in fondo, quando fai lavori di qualità, anche se possono sembrare, all’inizio, lontani da quello che può essere il gusto del pubblico, a conti fatti la scelta risulta giusta. Negli ultimi anni gli spettatori si sono rivelati molto più intelligenti rispetto a come li vogliono far passare.

Quindi, bisogna assumersi un rischio?
Sempre!

Per quanto riguarda la polemica su film e serie di genere che mettono in scena il male e la paura dell’emulazione, cosa risponde Salvatore Esposito?
Sono polemiche che nascono solo ed esclusivamente in un Paese come l’Italia, un Paese che non si lamenta e non scende in piazza per le cose serie, ma piuttosto preferisce parlare di argomenti futili e stupidi. Questo deriva da anni e anni di tv spazzatura che ha, non solo impigrito, ma anche abbassato drasticamente il gusto della gente. Recentemente, sia col cinema sia con la serialità, sembra che stia nascendo un nuovo occhio critico nel pubblico e che lo stiamo educando al bello. A ciò ha contribuito anche la visione da parte di tantissimi spettatori di serie e film americani in streaming. Il 24 agosto “Gomorra – La serie”, la prima stagione, esce negli Stati Uniti. Per noi è un banco di prova importantissimo, però, i riscontri già dagli altri Paesi esteri sono stati molto positivi quindi vuol dire che noi, qualcosa, la sappiamo realizzare.

Salvatore Esposito nel Salento ©Daniele Notaristefano
Salvatore Esposito nel Salento ©Daniele Notaristefano

Sembri molto legato alla tua terra, Napoli, tenendo anche conto del film che stai girando adesso, “Veleno” di Olivares...
Sì, questo film racconta un’altra grave piaga della mia terra, la Terra dei Fuochi, ossia il biocidio. Nonostante la sanità italiana tenda a nascondere, c’è stato oggettivamente un incremento, in quelle zone, di tumori e malattie respiratorie dovuti ai roghi. “Veleno” è un film d’autore, per la regia di Diego Olivares, e racconterà in due modi diversi l’avvelenamento di quelle persone. Da un lato quello della famiglia costituita dai personaggi interpretati da Massimiliano Gallo e Luisa Ranieri – degli agricoltori che possiedono queste terre. Dall’altro lato c’è il mio punto di vista: un avvocato futuro candidato sindaco, che si ritroverà, “suo malgrado” ma non solo, a far da tramite diretto tra la delinquenza e i contadini per quanto riguarda l’acquisizione delle terre da parte della malavita. Quest’avvocato, però, verrà “avvelenato” moralmente e quindi si narra questo dualismo tra fisicità e moralità che richiama il titolo.

Ti senti di scendere anche in campo?
Assolutamente sì. Io nasco col condividere in pieno l’idea di Roberto Saviano ossia che bisogna denunciare e far capire alla gente perché è facile dire “noi lo sapevamo”, non è vero, non lo sapevi. Non ti indignare per “Gomorra”, indignati per chi davvero commette quelle cose, quella è realtà. Noi raccontiamo una storia di fantasia, ma basata su eventi che sono realmente accaduti, perché non ci si è indignati per quelli? A settembre, invece, farò tutt’altro, una commedia…

Genny Savastano in una scena di Gomorra
Genny Savastano in una scena di Gomorra

Ti aiuterà a uscire dall’idea di un certo tipo di ruolo in cui magari vogliono ingabbiarti alcuni…
L’ingabbiamento nasce solo se sei limitato tu, artisticamente, a fare solo una cosa perché sai fare solo quella. Gli attori americani dimostrano di poter fare tanti ruoli, alcuni attori italiani anche, perché dovrei rimanere io bloccato? Già il fatto di scegliere alcuni progetti come “Zeta” e “Lo chiamavano Jeeg Robot” mi supporta in tal senso. Io, lo sottolineo, a Gomorra ci tengo, non penso poi che faccio una stagione e la gente si dimentica, credo che rimarrà nell’immaginario per tanti e tanti anni. A prescindere dalla durata di quello che fai, conta la qualità di ciò che realizzi. Per me Genny Savastano è stato un dono di Stefano Sollima perché artisticamente ritengo sia uno dei personaggi più ben scritti e articolati della storia del cinema italiano e non solo.

C’è un aspetto che vorresti emergesse di te?
A me piacerebbe trasportare la versatilità del cinema americano e internazionale in Italia perché troppo spesso da noi ci si è limitati a fare dei film brutti che hanno deteriorato anche l’affezione da parte del pubblico. I cinema hanno avuto effettivamente un’inflessione. Sarebbe bello portare un action o un film coi supereroi come ha fatto Gabriele Mainetti, bisogna fare cose diverse perché la gente le comprende e ne è attratta. Si annoia di vedere, invece, sempre le solite cose.

Questo pregiudizio c’è, però, come sottolinei tu, verso l’attore e il cinema italiano…
Io ricordo sempre un’intervista di Toni Servillo dopo la vittoria di Sorrentino all’Oscar, in cui si arrabbiava, giustamente, dicendo: “non vi rispondo perché invece di esultare perché abbiamo vinto un Oscar dopo tanti anni vi mettete a fare certe riflessioni”. Io sono cresciuto guardando da “Il Padrino” a “Scarface” ai film di Batman o alla Piovra stessa, non sono un criminale anche se sono nato in una zona difficile. Sei un criminale se tu hai già qualche problema di fondo, se non hai una famiglia alle spalle, se lo Stato si dimentica di te così come spesso accade. A volte quando mi dicono “non ti fa male raccontare certe cose” penso che faccia più male alla politica perché così scopri quali sono le loro carenze, tocchi quella che è la loro assenza, la loro inutilità sociale e questo dà fastidio.

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