Irrawaddy mon amour, la Birmania e le nozze gay

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Quant’è difficile amare e amarsi liberamente? È questa la domanda che sorge spontanea guardando Irrawaddy mon amour di Nicola Grignani, Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e, parallelamente, una risposta viene naturale partecipando alla storia d’amore tra Soe Ko e Saing Ko. Presentato in concorso alla 33esima edizione del Torino Film Festival, il documentario racconta una delle prime scintille scoccate tra due uomini in Birmania – soprattutto dichiarandola – e la loro lotta per affermare se stessi e ciò che provano. Il film si apre sul fiume Irrawady, un’immagine che tornerà in conclusione e che diventa il simbolo di questo amore. «Il nostro amore è come l’Irrawady, un fiume che non smette mai di scorrere», è proprio ascoltando queste parole che si tocca ancora una volta con mano come non ci sia differenza tra l’amore tra uomo e donna o tra due persone dello stesso sesso, i sentimenti – quando sono puri – sono quelli e tutti ci riconosciamo. Il trio registico segue con molta discrezione le persone che abitano questo villaggio birmano, Kyauk Myaung, presentandole allo spettatore di turno, in particolare, nel primo quarto d’ora (usano molto la tecnica del pedinamento). Subito dopo si entra nel vivo della questione: amare alla luce del sole.

Il vento senz’altro sta cambiando nell’Asia sudorientale, tanto più con l’elezione del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ma Irrawaddy mon amour ci fa percepire come il mutamento sia l’effetto di singoli che si uniscono e non solo di volti che prendono le redini di un Paese. In quel piccolo luogo, fatto di tradizioni, costumi e molta religiosità, si sta prendendo consapevolezza della propria identità e si cerca di sensibilizzare – merito anche dell’attivista gay, Myo Nyunt. «Abbiamo sentito vicina a noi la scelta di Myo Nyunt, Soe Ko e Saing Ko di affermare se stessi, i propri sogni e combattere per un futuro migliore in un contesto avverso. Ci è sembrato un grido di libertà in un Paese governato da un’élite militare da oltre mezzo secolo. Abbiamo così con convinzione deciso di documentare uno dei primi tentativi di celebrare un matrimonio gay nella storia della Birmania, voluto fortemente dalla giovane e timorosa Soe Ko che chiede aiuto a Myo Nyunt, persona che non teme i cambiamenti ed è fermamente convinta delle sue azioni», hanno raccontato i registi.

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I tre avevano dimostrato già con “Striplife” (2013) di non voler speculare sulle situazioni (lì erano sulla Striscia di Gaza), mettendo in campo uno stile rigoroso che in Irrawaddy mon amour si sposa con tanta poeticità. Alcuni fotogrammi, che immortalano proprio il fiume che scorre e gli uomini che lo attraversano, parlano da sé. I tre filmaker riescono a rappresentare un paesaggio così lontano da noi e quello che la comunità LGBT sta vivendo e per cui combatte (per loro stessi e per chi verrà) insieme alla dimensione mistica-rituale, che subito balza all’occhio grazie anche agli abiti colorati e alla presenza di sciamani molto seguiti dagli abitanti di lì. Spesso si pensa che per chi non vive certe condizioni non si può capire fino in fondo e, forse, effettivamente è difficile comprendere la paura della polizia e delle ritorsioni che gli omosessuali hanno. Cosa vuol dire essere rinnegati dalle persone che ti hanno dato alla luce perché sei omosessuale o transgender? In Irrawaddy mon amour la macchina da presa e quei volti capaci di raccontare un mondo interiore riescono a comunicarci tutto questo facendoci entrare in empatia grazie alla verità e alla forza del cinema del reale. Si avrebbe voglia di approfondire ulteriormente come mai ci sia quel quadro-politico, ma è palese che non è questo l’intento dei nostri registi, messisi a servizio di una storia d’amore e del desiderio di libertà di queste persone ed è questo sguardo lieve, nel quotidiano, che colpisce e s’imprime nella nostra memoria. La trama ruota intorno alle vicende di due uomini che in un piccolo villaggio della Birmania, innamorati l’un dell’altro, desiderano profondamente unirsi in matrimonio al di là del timore di essere arrestati o delle ripercussioni della polizia.

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Maria Lucia Tangorra

Nata a Conversano (Ba) nel 1987, da alcuni anni si è trasferita a Milano per coltivare la passione per cinema, teatro e giornalismo col desiderio di farne un lavoro. Free-lance, critico e corrispondente dai festival per web magazine di cinema e teatro; ha realizzato anche reportage e approfondimenti di spettacoli tra cui “Invidiatemi come io ho invidiato voi” di T. Granata e “Un giorno torneranno” ideato e interpretato da S. Pernarella. Si è appassionata al cinema e al teatro vedendo recitare gli attori forgiati dal maestro Orazio Costa Giovangigli e da lì ha cercato di conoscere i diversi modi di fare e vivere il teatro e il cinema (senza assolutamente disdegnare alcuni lavori televisivi di qualità). Quando ha sentito sul palco queste parole: «Sai cosa vuol dire vivere in un sogno? Ciò che tu non sei, sei: e, ogni notte, lo frequenti» (dal testo teatrale “Orgia” di P. P. Pasolini) ha pensato che questo accade quando ci si immerge nel buio della scatola magica e della sala cinematografica. Grazie a questo lavoro fatto anche di incontri umani, non solo professionali, pensa che senza il teatro e il cinema il respiro sulla vita sarebbe diverso perciò, nonostante tutto e tutti, crede che di cultura e arte si possa vivere e che le passioni possano trasformarsi in una professione.

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