Un Piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, trama e recensione

La trama di Un Piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza e la recensione. Di dentiere da vampiro, sacchetti-risata e maschere con nasone. L’allegoria visiva in 39 piani fissi di Roy Andersson, ultimo Leone d’oro alla 71esima edizione del Festival di Venezia, arriva nelle sale italiane dal 19 febbraio. 

Un Piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza tramaRoy Andersson è un cineasta che lascia poco spazio all’immaginazione. Fa vedere tutto, nonostante la tendenza a mascherare il coinvolgimento emotivo, che pure c’è, con artifici retorici e stilistici che allontanano il gioco empatico di immedesimazione tra spettatore e personaggi. Si può dire che Un Piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza sia la messa in scena di una burla, un divertissement di nerissima e tagliente ironia, rappresentato come un’esposizione pittorica (e umana) in 39 quadri fissi, utilizzando il piano sequenza e la profondità di campo. Insomma, quadri viventi di icastica e lucida geometria in cui agiscono uomini/marionette ammaestrate. Di grande impatto visivo, grazie anche all’uso del digitale (alla maniera di Lech Majevski) che amplifica la percezione ottica del piano di rappresentazione, il film che chiude la trilogia iniziata con Songs from the second floor (2000) e proseguita con You, the living (2007), è l’epitaffio a un’umanità composta nel proprio delirio esistenziale e indifferente al velo di tragicità che cala sul mondo. Più che di mondo, negli ambienti spogli del film Un Piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, è lecito parlare di microcosmo in cui sfilano, uno dopo l’altro, oggetti bizzarri e tristi individui che il regista, attraverso inquadrature distanziate, fa agire come in uno spazio teatrale. Leitmotiv del mosaico finemente intarsiato al dettaglio – simboli arcani di morte come animali impagliati e teschi di dinosauro, immobili nelle teche di vetro, compaiono già nel primo quadro fotografico – è la storia di due venditori ambulanti di scherzi di Carnevale, intenti, senza quasi mai riuscirci, a piazzare i loro tre articoli più gettonati, denti di vampiro con canini appuntiti, sacchetti che producono risate e maschere con un prominente naso. Senza capire mai il motivo di strane intrusioni, i segmenti pittorici che compongono l’opera alternano il nonsense tipico del cinema scandinavo a visioni surreali senza soluzione di continuità. Così, in questa “tana del bianconiglio” dove le magie sono parche e morigerate, possiamo vedere un bar del presente in cui fanno irruzione le truppe di Carlo XII, partecipare a conversazioni prive di logica sulla misurazione del tempo, assistere a tre momenti luttuosi in cui gli individui si trovano di fronte a scelte improponibili, a misteriosi esperimenti su una scimmia (riprodotta in digitale) e ad un inquietante rogo in cui a bruciare sono esseri umani inconsapevoli. Su tutti i personaggi pallidi, con visi cinerei che ricordano le maschere circensi o la commedia dell’arte, pasciuti e dinoccolati, incombe una calma solo apparente che, un finale non consolatorio o edificante, mette irrimediabilmente sotto accusa. Negli ambienti claustrofobici in tonalità grigia o negli spazi aperti e rarefatti delle riprese in esterni, caricature grottesche di individui, più morti che vivi, si muovono sulla scena come al ralenti: Jonathan e Sam, il capitano di marina che si improvvisa barbiere facendo scappare un cliente, la donna delle pulizie, il bar di Lotte la zoppa a Göteborg, Roger, l’insegnante di flamenco, la bambina che recita la poesia su un piccione che riflette su un ramo “senza un soldo in tasca”. Campioni di umanità dolente che si (auto)alienano dalla vita reale perché ombre in un mondo di ombre. E quando nell’ultimo quadro si sente il verso del volatile, non possiamo non pensare ai Cacciatori nella neve di Bruegel il vecchio e ai piccioni, osservatori privilegiati dello sfacelo a cui va incontro, da secoli, l’umanità “cacciatrice”. Quando si dice “La vita che imita l’arte”.

Vincenzo Palermo

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