Nerone – duemila anni di calunnie, la recensione dello spettacolo

Nerone – duemila anni di calunnie è in scena al Teatro Manzoni di Milano fino al 19 ottobre. Lo spettacolo sarà poi allestito al Teatro Manzoni di Monza il 20 novembre, al Teatro Sociale di Busto Arsizio 21-22 novembre, al Teatro Fraschini di Pavia dal 25 al 27 novembre, al Teatro Sociale di Como il 28 novembre, al Teatro Ariston di Mantova il 29 novembre, a Bardonecchia il 30 novembre, al Teatro Goldoni di Firenze dal 3 al 5 dicembre, al Teatro Cilea di Reggio Calabria 9-10 dicembre, al Teatro Politeama di Catanzaro l’11 dicembre.

Nerone. duemila anni di calunnie

Qual è l’immagine che abbiamo noi di Nerone? Cosa e quanto ne sappiamo a riguardo?

Queste sono solo alcune delle domande che sorgono spontanee approcciandosi alla visione di Nerone – duemila anni di calunnie di e con Edoardo Sylos Labini, liberamente tratto dall’omonimo saggio di Massimo Fini. La realtà è che la Storia ci ha consegnato soprattutto un’idea mostruosa di questo princeps, suggeritaci da quel “duemila anni di calunnie” ed è qui che risiede un punto centrale su cui lavora la drammaturgia, composta a quattro mani da Angelo Crespi e Sylos Labini.

Nerone duemila anni di calunnie2Si apre il sipario e in un “incubo” di visione ascoltiamo il coro che ripete ciò che tutti noi sappiamo: «Nerone ha bruciato Roma, ha ucciso la madre, la moglie, il fratello, è l’anti-Cristo, ama il popolo il pazzo! Ci rovina tutti». Queste parole (che ritorneranno nel corso della pièce) rispecchiano, in particolare, il pensiero del Senato di cui faceva parte Seneca (Sebastano Tringali), i cui scritti hanno alimentato il corpus della storiografia antica, dura e implacabile nei confronti dell’imperatore. Lo stoico, precettore di Nerone per volere della madre Agrippina (Fiorella Rubino), entra sempre più nella vita politica romana, cercando di influenzare prepotentemente Nerone e di ridimensionarne gli slanci verso il popolo, ma le sue aspettative saranno deluse. In particolare nelle “Naturales quaestiones” (62-64), il filosofo esprime tutta la sua disillusione e arriva a paragonare la monarchia a una tirannide con un parallelismo sottile tra Alessandro Magno e Nerone, così come, infatti, Alessandro il Grande – definito: tiranno privo di controllo – aveva accanto il saggio – Callistene -, così Nerone aveva il suo – e cioè lo stesso Seneca. Per fortuna, gli anni servono anche a mutare o quantomeno a integrare i ritratti di un personaggio e a questo ci ha pensato la storiografia moderna e contemporanea, da Denis Diderot ai giorni nostri con Massimo Fini.

Labini non vuole santificare la figura di Nerone, il suo allestimento è teso a farci percepire anche aspetti umani – e non solo dittatoriali – e a farci conoscere le contraddizioni della classe politica di allora con uno sguardo che guarda al passato per osservare il presente, senza, però, voler fare moralismi. I confronti con l’attualità avvengono naturalmente nello spettatore e non è una questione di colore politico, qui destra o sinistra non c’entrano, la parabola neroniana e del potere è messa in scena operando per archetipi, di qui anche l’espediente di “costruire” un incubo per far rivivere Agrippina, Poppea (Dajana Roncione) e i diversi fantasmi di Nerone (interpretato dallo stesso Labini, assolutamente in parte).

locandina NeroneGrazie anche all’ottimo lavoro realizzato su scena e costumi (Marta Crisolini Malatesta) e al disegno luci (curato da Pietro Sperduti), a tratti si ha la sensazione di un tempo sospeso e di essere quasi in un non-luogo, in altri momenti viene sottolineata ancor più la dimensione del sogno (significativi gli incontri, anche ambigui, con la madre), senza perdere di vista i riferimenti alla Roma di quel tempo. A offrire una nota particolare ci pensa Paul Vallery, ora in scena come mimo quasi stesse facendo una performance presso la corte neroniana, ora sul “confine”, pronto a farsi DJ per ricreare le sonorità e le atmosfere della domus aurea insieme agli allievi attori di Adiacademy (la prima Accademia professionale d’Arte Drammatica di Monza). Questa è una cifra stilistica del modo di far teatro di Edoardo Sylos Labini, d’impatto ci potrebbe sembrare bizzarra l’idea di un dj quando si rievocano duemila anni, eppure funziona molto bene, con un pubblico che viene trascinato tra passato e presente e finzione grazie al connubio delle varie maestranze.

In Nerone – duemila anni di calunnie è come se Nerone emergesse dalla Roma incendiata, forse da lui, forse da altri di cui una parte della storiografia ci tramanda notizie. L’uomo è lì, pronto a fare i conti con la platea di turno sia come governatore che come attore. Labini, memore dell’idea che fare teatro è come realizzare un’opera di artigianato, gioca col doppio insito in chi attorniava Nerone – vedi gli atteggiamenti gianobifronti di Seneca, Fenio Rufo (Giancarlo Condè), Otone (Gualtiero Scola) pronti a congiurare alle sue spalle – e peculiarità dell’essere attore. «Ma cosa resterà di me?» si domanda in modo accorato e, come se si vedesse a posteriori, si risponde: «2000 anni di calunnie» aggiungendo, però, che «solo la poesia può salvarci»… in fondo è questa la funzione culturale dell’Arte: suggerirci nuovi spunti e altre ottiche, a noi poi (ac)coglierle e rifletterci.

Maria Lucia Tangorra

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