MALI, TRA INTERVENTISMO E CRISI UMANITARIA

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La situazione in Mali si fa giorno dopo giorno più complessa e sanguinosa. I militari francesi e le truppe regolari di Bamako hanno riconquistato Diabaly e Douentza e ora tentano l’assalto alla “città-simbolo” di Timbuctu per costringere i ribelli jihadisti a ripiegare nell’estremo nordest del Paese. Si combatte sul campo, ma la battaglia è anche e soprattutto diplomatica. L’Egitto di Mohamed Morsi si è schierato contro la guerra, affermando che rischia di destabilizzare ulteriormente la regione saheliana mentre l’Italia ha dato apertamente il suo sostegno ai francesi.

Il ministro degli Esteri Giulio Terzi ha parlato davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, ribadendo che «senza una piena responsabilizzazione delle forze africane e maliane, difficilmente si potrà uscire» da una crisi che si prospetta lunga e di non facile risoluzione. «Credo – ha aggiunto – che un paese come l’Italia, impegnato non solo nella lotta al terrorismo, ma anche nella stabilità e nello sviluppo del Sahel, non possa non essere parte – seppure limitatamente – di questa operazione» in Mali. Il ministro ha ribadito la decisione del governo di inviare dai 15 ai 24 istruttori sui 450 della missione Ue di addestramento, contenuta nel decreto missioni.

Quella dell’Italia è una mossa strategia decisiva perché ciò che avviene in quella regione dell’Africa riguarda direttamente anche il nostro Paese. In Mali è in corso una guerra interna tra governo e terrorismo islamico, frutto della disgregazione della Libia. Dalla Libia e dall’Algeria dipendono circa un terzo delle nostre forniture energetiche e questa è una ragione sufficiente perché l’Italia non possa stare a guardare.

Il conflitto interno maliano non è scoppiato all’improvviso ma è in corso già da un anno, da quando il 22 gennaio 2012 i ribelli Tuareg del National Movement for the Liberation of Azawad cominciarono a occupare diverse città nel Nord. Il conflitto armato vede opposte le forze governative, da una parte, e i gruppi ribelli MNLA, Al Qaida in the Islamic Maghreb (AQIM), Ansar Dine, il Movement for Unity and Jihad in West Africa (MUJAO) dall’altra. Ma questi gruppi terroristici, lungi dall’essere compatti, si contendono l’un l’altro il controllo del territorio. Ad aprile dell’anno scorso i combattenti di MLNA dichiararono l’indipendenza del Nord del Mali ma persero in fretta il potere ad opera del Ansar Dine and MUJAO che, approfittando dell’instabilità interna del governo, riuscirì a portare molti uomini del MLNA dalla sua parte prendendo il controllo dell’area e imponendo la sharia.

Una situazione davvero complessa in cui si è inserita la Francia, nel tentativo di sedare le rivolte e ridare il potere al legittimo governo del Mali. A chi ha definito l’intervento francese una guerra di colonizzazione, il ministro della Difesa, Jean-Yves Le Drian ha risposto che l’operazione militare «punta a ripristinare la sovranità del Mali sul suo territorio e a scongiurare il rischio che si costituisca un santuario terrorista nel cuore dell’Africa». Tuttavia, all’offensiva di terra si sono aggiunti i bombardamenti alle città di Gao e di Timbuctù, riconosciuta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.

L’unica cosa che interessa alla Francia è «sconfiggere il terrorismo», a dispetto delle gravi conseguenze che le azioni militati avranno per l’intera popolazione di Sahel. L’organizzazione Human Rights Watch ha dato notizia di gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei civili. Sia i gruppi armati ribelli e che lo stesso esercito governativo si sarebbero resti responsabili di omicidi, mutilazioni, tortura, violenza, attacchi contro obiettivi protetti, di condanne ed esecuzioni compiute in assenza di giudizio da parte di tribunali regolarmente costituiti, saccheggi e stupro contro civili.

A ciò si unisce l’emergenza umanitaria denunciata dalla Croce Rossa Internazionale, secondo cui i civili stanno fuggendo da Sévaré, Konna e Diabali. L’intera regione di Sahel – vasta area semi arida che confina con l’estremità occidentale del Sahara e che tocca gli stati del Niger, della Mauritania, del Mali, del Ciad, del Sud del Senegal e del Burkina Faso – è in pericolo. Gli abitanti sono costretti a lottare con fame e sete, oltre che con la desertificazione che ne minaccia la sopravvivenza. A tale proposito sono significative le parole di Mamadou Biteye, direttore di Oxfam Africa West, che ha detto: «Ogni intensificazione del conflitto potrebbe rendere ancora più difficile alle comunità l’accesso all’aiuto di cui hanno bisogno, Il rischio che le operazioni militari nel nord del Mali diano un colpo definitivo alla già fragile situazione umanitaria è una certezza».

Tanti, forse troppi, gli elementi alla base del conflitto maliano. Da una parte l’Occidente avverte in “dovere” di intervenire, di combattere i ribelli e ripristinare una situazione relativamente tranquilla, non per fare beneficenza ma perché gli interessi in gioco sono altissimi, soprattutto per l’Europa. Dall’altra, il “processo di pace” non può che passare attraverso morte e distruzione e minaccia la già precaria condizione di vita di migliaia di africani.

Piera Vincenti

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