Cibo & Cinema, intervista a Laura Delli Colli

Laura Delli Colli, presidente del Sindacato Italiano Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI), è un’habitué del festival Cortinametraggio e non solo per il ruolo giornalistico. Da anni durante i giorni della kermesse presenta i suoi libri presso la Libreria Sovilla. Quest’anno è stata la volta dell’edizione aggiornata di “Pane, film e fantasia. Il gusto del cinema Italiano”, pubblicato da RAI-ERI nella collana Culture. A presenziare l’evento c’erano con lei Umberto Marongiu di Rai Com e Fabiana Cutrano di Rai Cinema, i quali hanno presentato il volume “Ricette e ritratti d’attore” tratto dalla webserie omonima in cui artisti, dai più noti agli emergenti, si raccontano a partire da una ricetta da loro scelta rivisitata dallo chef Massimiliano “Max” Mariola. Vi anticipiamo che è prevista una nuova serie tutta da gustare! A conclusione dell’incontro abbiamo intervistato Laura Delli Colli per approfondire, attraverso il suo libro, il binomio Cibo & Cinema.

Com’è nata l”idea di “Pane, film e fantasia. Il gusto del cinema Italiano”?
Sono stata incuriosita da questo connubio ormai più di dieci anni fa. Nel mio testo cito più di cento film, si parte con “Roma città aperta” di Rossellini (1945) dove la minestra viene cotta sulla stufa. Attraverso il cinema vediamo com’è mutato il nostro Paese. Ad esempio nei film del Dopoguerra prevalevano le zuppe e gli ingredienti poveri, basti pensare anche alla pasta e ceci de “I soliti ignoti” di Monicelli (1958). Credo sia importante lavorare sul gusto della memoria riattivandola.

©Matteo Mignani
Un momento della presentazione a Cortina ©Matteo Mignani

Come mai questa passione?
Sono nata in una famiglia di cinema e quindi la curiosità per il cinema l’ho avuta un po’ da sempre. Mio padre Franco e mio zio direttori della fotografia, con anche mio padre operatore di macchina di mio zio, Tonino Delli Colli. Nasco perciò in un clima dove il cinema faceva parte della mia quotidianità. Ho cominciato a fare questo mestiere nel 1972 come precaria, allora si diceva abusiva, e dopo un po’, abbastanza naturalmente, è stato inevitabile che riuscissi a inserire anche aspetti del mio mondo personale. Per altri versi devo dire che a casa mia si cucinava tanto, era una famiglia molto tradizionale e si incontravano varie generazioni, mamma, nonna, bisnonna. Loro avevano un rapporto diverso con la tavola rispetto a quello che c’è oggi. Avevo due nonne, ma con una ero ancora più a contatto e vigeva proprio l’idea di cucinare il giovedì gli gnocchi, martedì e venerdì il pesce. Se poi devo essere sincera, loro non mi facevano tanto avvicinare alla cucina perché forse pensavano che avessi altri interessi. L’idea di unire questi due mondi è venuta un po’ in omaggio a questa tradizione famigliare e sicuramente per un interesse che è nato guardando i film, forse proprio quelli di Özpetek trattandosi di un cinema in cui si mangia davvero. Lui è uno dei pochi registi che ha una persona che segue materialmente sul set la preparazione delle cose. Il tutto è cominciato indicativamente dopo “Le fate ignoranti” (2001), dov’è stata presa una consulente ad hoc visto che nelle sue opere il cibo è un elemento chiave. Ad esempio sui set allestiti da lui in Puglia, la troupe non aveva il cestino come solitamente accade, ma andava in osteria. Özpetek è un regista che è attento perché si crei un clima con gli altri di socialità e questo mi ha fatto riflettere su tante cose. È una passione che è partita con un libro, ma che piano piano è diventata una serie declinata in circa quattordici libri se penso anche a due tradotti in inglese e spagnolo adesso fuori commercio. Col tempo è diventato una sorta di almanacco con cadenza annuale, una piccola strenna natalizia in cui parlavo dei film dell’anno, ma anche di quelli passati magari in cui ricorreva l’anniversario, tra questi c’è stato uno speciale dedicato a Ugo Tognazzi.

Si è confrontata anche con altre cucine?
Posso dire che solo in Oriente, come nel cinema italiano, c’è un’attenzione particolare a raccontare la cucina in maniera visiva con una cura anche verso il piatto. Un’alternativa in Europa potrebbe essere la Francia però è anche vero che è sempre un esibizionismo del loro nazionalismo, è molto burrosa, a parte ne “La cuoca del presidente” (2013) in cui c’è un ritorno a una cucina meno elaborata.

Cos’è per lei, quindi, il gusto del cinema italiano (sottotitolo del libro di Laura Delli Colli, nda)?
In qualche modo si assomigliano il cinema italiano e la cucina che si vede nei nostri film, c’è sempre qualcosa legata al territorio e alle radici. Esiste anche una connessione con la semplicità che diventa un modo di raccontare, magari sì d’autore, ma che anche nel tratto di qualcosa di molto semplice ci fa vedere che noi siamo molto meglio degli altri quando tocchiamo anche gli argomenti più famigliari. Se pensiamo a “La stanza del figlio” (2001) c’è una scena in cui arriva una teglia, ma nessuno mangia ed è quindi una cucina triste così come si può vedere nei film di Tognazzi. A dispetto di com’era lui nella vita e cioè molto attento e piacevolmente intento a cucinare, se facciamo tornare la mente anche solo a “La grande abbuffata” di Marco Ferreri (1973) lì la cucina è un modo per scegliere la strada del suicidio, ovviamente in maniera estrema. In generale, invece, nel nostro immaginario affiora subito Sophia Loren che mette sempre le mani in cucina o ancora ne “La dolce vita” (1960) c’è una citazione legata a Marcello Rubini (Mastroianni, nda). La fidanzata di Marcello Rubini (Emma, interpretata da Yvonne Furneaux, nda), infatti, per allontanarlo da Sylvia (Anita Ekberg) prova a invogliarlo a rientrare a casa con la promessa di fargli trovare i ravioli ricotta e spinaci. C’è sempre una situazione legata alla tavola, da quella amara a quella più gioiosa e vitale.

Laura Delli Colli intervistata da Maria Lucia Tangorra
Laura Delli Colli intervistata da Maria Lucia Tangorra

Dottoressa Delli Colli, quali autori e cineasti vuole ulteriormente citarci a proposito di Cinema & cibo?
Tra coloro che hanno declinato meglio di tutti questo rapporto mi fa piacere nominare Ettore Scola, Pupi Avati, ma anche le tavolate di Nanni Moretti con anche la battuta sul montblanc e la sacher in “Bianca” (1984) o ancora la lasagna al pesto col pepe rosa ne “L’amore è eterno finché dura” di Carlo Verdone (2004). Nei lavori di Ferzan Özpetek, d’altro canto, assistiamo alla tavola allargata, sintomo del cambiamento sociale. Poi ci sono anche Ermanno Olmi o Bernardo Bertolucci rappresentativi della cucina della Bassa Padania. Indimenticabili sono anche alcuni momenti dei film di Cristina Comencini, non ultimo “Latin Lover” (2015) con Virna Lisi che fa da padrona di casa, o dei fratelli Vanzina (tra l’altro celebrati a Cortinametraggio per i loro quarant’anni di carriera, nda) tra cui “Il pranzo della domenica” (2003), senza dimenticare la gag del cellulare nel tacchino in “Natale sul Nilo” diretto da Neri Parenti (2002).

Come si evolverà, a suo parere, questo binomio?
Difficile da dirsi, certo se si pensa all’ultimo film di Paolo Genovese, “Perfetti sconosciuti”, è tutto girato intorno a un tavolo. Si potrebbe dissertare di fiori di zucca fritti o al forno.

Il pubblico, potenziale spettatore, anche grazie ai reality, è sempre più affascinato dalla cucina. Cosa ne pensa di questo?
Sono soddisfatta e mi ha fatto sorridere, nel senso più positivo del termine, constatare che nella penultima puntata di Masterchef c’erano ricette viste in film, due di queste erano proprio complesse, tratte da pellicole internazionali come le quaglie “en sarcophage” de “Il pranzo di Babette” (1987). Tre su cinque, poi, sono proprio gli abbinamenti fatti nei miei libri (lo dice scherzando, nda). Magari Cracco sarebbe stato pessimo rispetto al giudizio sulle mie ricette.

Laura Delli Colli

 

Quindi le ricette sono tutte rielaborate da Lei?
Sì, sono tutte rielaborate da me e provate, magari non proprio fino all’estremo, piatti come il pasticcio de “Il Gattopardo” (1963) non li ho rifatti però l’ho alleggerito un po’ negli ingredienti.

Se dovesse scegliere una ricetta preferita?
Difficile dirne una preferita anche quando si va al ristorante si è sempre indecisi.

Se ne dovesse cucinare una d’istinto?
Sicuramente non farei un dolce, ma più una pasta asciutta. Certamente posso dire che il libro ispira molti menu.

Lo consiglierebbe, quindi, anche come libro di cucina?
Assolutamente sì e non me ne libero. Adesso mi hanno coinvolta nella formazione per gli istituti alberghieri con il “ Progetto Abc – Arte bellezza cultura” della Regione Lazio, che abitualmente lo istituisce per le scuole. Attraverso “Spaghetti e cinema” hanno deciso di occuparsi non solo dei licei, ma anche di ragazzi che obiettivamente nella loro formazione solitamente sono un po’ trascurati e quindi mi ha fatto molto piacere vedere che il libro, a suo modo, è servito ad aprire nuove strade. Ho quindi interagito con una classe di cinquanta insegnanti, uno per ogni istituto, e tutti contenti di indirizzare i ragazzi su dei temi suggeriti dal cinema. Faccio tre esempi utilizzati anche durante le lezioni e che sono le opere su cui anche gli studenti lavoreranno poi a loro volta. “Pranzo di ferragosto” di Gianni Di Gregorio (2008) è quando il cinema è un modo per manifestare attenzione e affetto verso un’anziana, “Immaturi” di Genovese (2010) perché c’è Ambra Angiolini che ha a che fare con la brigata in cucina. Infine, “La finestra di fronte” di Özpetek (2003) perché c’è la trasmissione del come si fa affidata a Massimo Girotti, il quale si rapporta a Giovanna Mezzogiorno, ed è un modo per capire quanto sia fondamentale avere a che fare con le proprie radici.

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