Chi Siamo, ci siamo? La maschera degli anni ’20

Josephine Baker

 Tutto rispetto per le donne, ma qualcuno ci crede ai fiori nati a bordo di strada???  Ogni  fiore è stato scelto dal  proprio padrone, lui decide il vaso, il colore e il modello. Ebbene sì, esiste un modello di fiore come esiste un modello di donna. Ormai le donne si classificano per modelle, oggi vogliono essere Sandra, domani vogliono essere Maria. Beh  facile identificarsi in qualcuno, ma quando ci si trova davanti ad un giudice – lo stesso giudice che ci giudica, giorno per giorno – lì siamo ciò che siamo senza la maschera. Vi è mai capitato che dopo la doccia vi fermate a guardarvi cinque minuti davanti ad uno specchio? Ecco, sono in quei cinque minuti che il giudice prende il posto dell’assistito ed è proprio quello il momento in cui la pelle si rizza e la paura di sapere la cruda verità giustifica quel brivido come un colpo di vento. Così, facendo finta di niente, ci spogliamo della verità vestendoci d’apparenza. L’apparenza è un abito modaiolo che non per tutti cede con la perfetta vestibilità. Per qualcuno la maschera, a volte, è molto evidente, forse volutamente messa male. Ci sono, credo, due motivi per cui un individuo decide di vestirsi di un volto artificiale. Da un lato caratterizzare il personaggio che si è deciso di interpretare, in modo che lo spettatore potesse identificarlo, così da anticipare la “personalità” dell’individuo che interpreta; dall’altro la scomoda comodità di non dover essere se stessi ma semplicemente essere un bravo alunno, tale da comprendere l’argomento così bene da riuscire a metterlo in pratica senza errori. Soluzione a questo problema è che Tutti, miei cari, Tutti indossiamo una “maschera”.  Essa infatti è  conforme a ciò che da noi si aspettano gli altri e che noi ci siamo imposti. Sconsolante è quindi il quadro di questa società, fondata sul nulla della finzione, della convinzione, del credere vero quello che si sa non essere tale. L’individuo viene travolto facilmente da questo gioco tragico e finisce per “vedersi vivere”: non più vivere la vita in senso attivo e fattivo, ma lasciarsi imporre la vita. Ogni giorno c’è qualcosa che ci viene imposto, però non voglio essere io il critico pessimista a cantare storie di vita, anzi ora è arrivato di nuovo il momento di chiudere gli occhi, quindi…

 1,2,3 Go!                                             

Cocò Chanel

“Ancora Rum, please!”.  Ubriaco mi rivolgo a Lei, stessa Donna scelta da Manet per rappresentare l’epoca del divertimento mostrando un locale emblema dove il lusso e la fortuna vivevano in Suite, insieme. Sto parlando del bar delle Folies-Bergère, famoso music-hall di Parigi, in rue Richer 32. Ed eccomi lì, sono proprio io davanti a quel bancone, ubriaco di follia e di bella gente. Ops, ubriaco non solo di follia, infatti una Donna mi travolge in quel ballo tipico dei tempi e da lì a poco le mie gambe iniziano a ballare da sole, il sorriso come d’incanto prende forma sul mio viso,”Why?”  “Because, sto parlando del CHARLESTON”.  ll charleston è un ballo di derivazione jazzistica che si collega con il rag time, diffusosi intorno agli anni venti, prima in America e poi in Europa. Di andamento veloce e brillante, esso è senza dubbio il più brioso, gaio e scoppiettante ballo dell’epoca moderna. Mi trovo intorno al 1925/26, anni Top di questo movimento ma anche un’epoca molto particolare della storia americana e del resto del mondo. La popolazione vive con frenesia e dissolutezza questo periodo, quasi presagendo il catastrofico crac economico del 1929, facendo cose pazze e dedicandosi al consumismo più sfrenato. In questo clima elettrizzante e di generale euforia, non poteva mancare un ballo che rispecchiasse quello stato d’animo e che caratterizzasse il periodo. Epoca in cui la musica allegra e gaia, ritmo eccitante, gonne frastagliate, collane di perle, la classica e rizza piuma sul cappellino, lustrini, paillettes e frac, sono il cocktail perfetto e sufficiente per  scaricare la tensione della pesante realtà in cui mi trovo. Mi muovo, ballo, non mi fermo, rido, mi affatico ma ad un certo punto tutti guardano Lei. Cattura l’attenzione di tutti, bella come una dea Afroamericana. Tutti l’acclamano, io applaudisco anche, parlo di Joséphine Baker (nella foto) accompagnata da un leopardo, che terrorizza l’orchestra e fa fremere di paura il pubblico. Udivo la sua voce a fatica, coperta dagli applausi e le congratulazioni…La canzone fa: “…we have no Bananas”.  Mi alzo in punte, anche se indosso scomode scarpe lucide ai piedi, e mi accorgo che canta nuda. Da lì qualcos’altro colpisce il mio sguardo, come un bambino davanti ad una vetrina di dolci, mi rendo conto che sono circondato di nuovo da tante caramelle, ma leggere e senza Tullè buon educato. Era lo stile dell’epoca. Era lo stile di Cocò Chanel. Una rivoluzione negli anni venti era seguire la moda o meglio lo stile di vita della signora Cocòl. Grabrielle disegna una nuova immagine di donna, liberata e indipendente dagli uomini: donna moderna e all’avanguardia. Donne che, mentre i mariti e i padri erano al fronte, avevano dovuto lavorare, quindi imparando così un’indipendenza prima sconosciuta. Donne che avevano anche cominciato a praticare degli sport che esigevano praticità e funzionalità nel vestiario, senza rinunciare alle seducenti qualità comunque richieste da una toilette femminile. I tessuti caratterizzanti sono il tweed ed il jersey,che intagliati nei tailleur diventeranno un MUST. Periodo in cui c’è la rottura differenziale tra uomo e donna ma entrambi vennero messi alla pari sulla bilancia della società. Ci fu quindi l’unione di elementi maschili in quelli femminili e viceversa. Anni in cui la consapevolezza del proprio corpo, la comodità e la mascolinità opportunamente mescolata alla femminilità, furono il miglior metodo di seduzione per conquistare femmine e uomini, essendo questi figli delle Donne!

Crico

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