Stefano Fresi, intervista all’attore

Per chi ancora non conosceva Stefano Fresi, “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia (2014) è stata l’occasione giusta per scoprire un attore che ha nel sangue le cosiddette battute pronte e non solo. Lo abbiamo incontrato alla serata conclusiva del Salento Finibus Terrae, nella splendida cornice di Borgo Egnazia, dov’è stato premiato col Safiter. In quest’intervista emerge tutto l’amore per l’arte e verrebbe da dire anche per la vita, oltre a una simpatia innata con cui si approccia. 

Stefano Fresi, qual è il tuo metro di giudizio per selezionare i progetti a cui prender parte?
Parto dal presupposto che bisogna leggere tutto perché ci può essere un Ennio Flaiano nascosto in un paesino dell’Abruzzo o uno Zavattini tra le montagne della Calabria. Quindi il primo metro è leggere e farmi affascinare dalle storie e da quanto la psicologia del personaggio è stata sviluppata in scrittura. Il problema della regia me lo pongo fino a un certo punto, nel senso che mi piace chiacchierare con le persone per cui cerco di capire che tipo di tempi ha il regista. Chiaramente ci sono delle persone delle quali mi fido a priori perché le conosco, sono nel mainstream e ho visto le opere. Se mi chiama un regista con cui non ho lavorato, mi confronto con lui, mi faccio raccontare l’idea che ha del personaggio e se mi interessa lo faccio. Per lo stesso motivo ci sono progetti anche grossi dal punto di vista economico che non mi hanno coinvolto e non erano interessanti per il tipo di carriera che voglio fare e non li ho presi in considerazione, perciò mi guida come metro il gusto personale sull’operazione.

Questo ti ha portato anche a sposare dei progetti indipendenti?
Assolutamente. Uno dei primi lavori che ho fatto, “Riprendimi” (2008), era di Anna Negri che poi fu selezionato al Sundance. Ultimamente ho preso parte a un’opera prima, “Una vita in cambio”, di Roberto Mariotti. Sono cose che faccio perché innanzitutto mi piace cimentarmi con personaggi che sono diversi e deviano da quello che il canale preferenziale, quello della commedia, mi chiede. Ho appena concluso le riprese di un film di Roberto De Paolis dal titolo “Cuori puri” dove davo volto a un sacerdote, un ruolo un po’ più lontano dalle mie corde in quanto non aveva nulla di ironico né di comico.

 

stefano-fresi È un dramma?
Sì, si tratta di una storia abbastanza drammatica, il mio personaggio ha un ruolo importante all’interno delle dinamiche. L’ho fatto perché mi è piaciuto il progetto. Mi piace anche scoprire se ho dei colori oppure no perché magari non è detto che io possa fare tutto ciò che mi viene offerto.

C’è un colore che ti ha stupito come scoperta?
Fino a ora non c’è qualcosa che ho scoperto. Credo che l’onestà che passa dei personaggi che realizzo è proprio il fatto che io mi conosco bene, quindi ci metto molto del mio sia quando il personaggio mi è vicino, sia quando è lontano perché è il mio modo di osservare il diverso da me. Io non sono uno che ha studiato in accademia e quindi ha una tecnica per affrontare i personaggi.

Sei istintivo?
Sì, poi il teatro mi ha insegnato a fidarmi molto dei miei collaboratori e quindi non sono di quegli attori che si chiude nella sua torre pensando “il personaggio è così e basta”. Ascolto non solo le indicazioni registiche, ma spesso con i miei colleghi mi capita di virare delle cose sul ruolo che sto interpretando. Ho appena lavorato con Elio Germano ed è stato straordinario perché lui veramente collabora con chi gli è accanto e capisci che lo fa non per dirti come farebbe lui quell’azione o gesto, ma perché poi la scena possa avere una sua pasta vera. 

Qual è il personaggio più complesso che hai interpretato fino a ora?
Tino Buazzelli nella fiction su Nino Manfredi perché lui è esistito e, in quel caso, ti devi scontrare con una realtà. Devo mettere me a servizio di un uomo realmente esistito.

Stefano Fresi al Salento-Finibus Terrae 2016 ©Daniele Notaristefano
Stefano Fresi al Salento-Finibus Terrae 2016 ©Daniele Notaristefano

Hai mai avuto la percezione che produttori o sceneggiatori provavano a indirizzarti da qualche parte, quasi “ingabbiandoti”?
No, non ho avvertito che ci fosse qualcuno che volesse incasellarmi in qualcosa.

Il rischio degli attori di oggi è proprio la tendenza a replicare lo stesso ruolo e la stessa tipologia di film…
Purtroppo sì, c’è questo andazzo, però io ho avuto offerte molto diverse tra loro. In “Romanzo criminale” ero un delinquente della Banda della Magliana. I due personaggi più importanti fatti fino ad ora, Alberto Petrelli di “Smetto quando voglio” e Claudio Felici di “Noi e la Giulia”, sembrano essere due falliti, ma in realtà sono profondamente differenti tra loro. Il primo è un genio della chimica a cui ha fallito il sistema intorno, lui di per sé è un vincente. Claudio Felici, invece, ha un negozio avviatissimo, ma è la sua incapacità personale a farlo fallire. L’uno vive un dramma personale per l’inadeguatezza; l’altro, invece, è un innocente, racconta davvero il Paese. Il nostro non è un Paese di falliti, ma in cui ci sono vari modi di fallire e dove ci sono persone che sarebbero vincenti se avessero modo di fare dopo la laurea.

Il tuo avvicinamento al teatro è arrivato con la musica, da cui sei partito. Avendo provato anche la recitazione, adesso questi “amori” vanno di pari passo?
Sono sempre stati amori paralleli, credo ci sia stata anche una certa intersezione perché sono convinto che la recitazione sia anche un fatto musicale se si tiene conto del suono della voce e della battuta. Ad esempio, l’idea che una pausa non è un silenzio fine a se stesso, ma atto a creare ritmo t’insegna che le pause in una battute devono essere giuste, né troppo lunghe né troppo brevi perché altrimenti non dai valore a ciò che hai detto prima e a quello che stai per dire e questo la musica te lo insegna bene. Secondo me la musica fa bene alla recitazione e viceversa, io continuo a viaggiare su questi due binari. A marzo sarò in scena al Piccolo Eliseo con “L’isola degli schiavi” di Marivaux (dal 22 marzo al 9 aprile 2017, nda) e lì sono in scena come attore, oltre a scrivere le musiche dello spettacolo.

©Sosia & Pistoia
©Sosia & Pistoia

Ti ritrovi anche tu in questo sistema di rinnovamento di Luca Barbareschi…
Sì, ha fatto una bellissima stagione.

Pensando anche al testo di Mamet portato in scena in napoletano da Marco D’Amore, diciamo che si tratta di una stagione anche rischiosa nell’accezione più positiva del termine…
Viva il rischio! Poi diciamo che l’intelligenza di Barbareschi sta nel bilanciare proponendo spettacoli per tutti i gusti, compreso il teatro classico, ed è giusto che sia così, continuando in tal modo a far venire chi prima già andava all’Eliseo e avvicinando nuovi fruitori.

Da spettatore, cos’è che ti infastidisce e cosa ti gratifica di più?
Mi infastidiscono le occasioni giocate male perché so benissimo, conoscendo il lavoro da dentro, che non è quasi mai colpa del regista o dello sceneggiatore, ma spesso di una produzione che mette i paletti dicendo che quella determinata cosa non può esser detta, suggerendo un cambio di battuta e quindi c’è sempre paura a osare e rischiare. Per far un esempio: hanno restaurato “Amici miei”, ci hanno invitato al cinema, dove non mi era mai capitato di vederlo. Avevo completamente rimosso una battuta che temo sia stata tagliata nei passaggi televisivi. A un tratto la moglie del Necchi, quello dei quattro che gestisce il bar, si arrabbia furiosamente perché hanno fatto l’ennesima zingarata, va nel retrobar e dice al marito: «basta fare zingarate altrimenti, te lo giuro sulla tomba di nostro figlio morto, non ti faccio più entrare a casa». È una battuta straordinaria, di un cinismo folle, ma oggi non te lo farebbero fare più, invece quello è il cinismo che ha decretato il successo della commedia all’italiana anche perché poi la vita è cinica, quindi perché dobbiamo edulcorare tutto? Il cinema deve essere la lente distorta e divertente di tutto, ma deve raccontare la verità. Per quanto riguarda ciò che mi gratifica è vedere quando progetti portati avanti con fatica raggiungono grandi risultati come “Non essere cattivo” di Claudio Caligari, dove Mastandrea e tutta la squadra si sono prodigati, regalando a quest’uomo morente l’ultima occasione per far capire quanto lui fosse grande.

Perché, secondo te, invece, il cinema italiano anche quest’ultima occasione come l’hai definita tu se l’è lasciata sfuggire, basti pensare al mancato David?
Perché il cinema italiano ha paura, va sul sicuro. Paolo Genovese ha fatto un grandissimo film e mi fa piacere che abbia preso il David, però non è possibile che non passi niente di Caligari, quantomeno un premio agli attori. La mia paura è che ci sia quel timore stupido che probabilmente non ha premiato a suo tempo “Il postino” e cioè quel pensiero: “poi ci dicono che siccome è morto, gli abbiamo conferito un riconoscimento”. Io credo che se un’opera, un artista meritano vanno premiati indipendentemente dal fatto che purtroppo la persona nel frattempo sia venuta a mancare perché comunque sei di fronte a una grande opera che azzittisce chiunque.

Prima accennavi a Elio Germano, qual è il collega che ti ha fatto sentire al sicuro?
Sicuramente Germano adesso, da uno più bravo di te senti le spalle coperte, ti spinge ad alzare l’asticella. Mi son sentito al sicuro anche con Edoardo (Leo, nda) con cui si è creata una corsia preferenziale perché lui ha un modo di guardare la commedia molto simile al mio. Lui ha un grande cervello da regista, sa guidare benissimo gli attori e mi dà la certezza che se faccio una scena in cui potevo dare dieci e do sette, lui se ne rende conto e non me la passa e la rifacciamo. Non è facile ciò che fa lui perché recita in un film dove cura anche la regia, avendo gli occhi sui suoi attori.

Accennavi prima alla commedia e a Paolo Genovese. Voi avete segnato già con Sydney Sibilia un solco, ovviamente sono due commedie diverse. Si sta cavalcando, da noi, l’idea di tornare al cinema di genere. Tu come la vedi?
Io dico semplicemente grazie a chi ha creduto a Sydney Sibilia perché gli ha permesso di essere un apripista però credo che il momento sia felice perché le menti a lavoro sono tante. Ci sono Sibilia, Edoardo Leo, Gabriele Mainetti che ha realizzato un film a mio avviso bellissimo. Siamo stati i primi cronologicamente, però in realtà la questione è che si sta tornando a un film di sceneggiatura. Se pensiamo a Genovese, lui ci ha fatto un regalo straordinario perché ha spaccato le gambe a quella marea di produttori che avrebbero reagito negativamente se gli fosse stata sottoposta la sceneggiatura di una cena. Avrebbero detto: “ma non si può fare un film tutto in una casa, mettiamo alcune scene in esterni”. Genovese ha dato a tutti la possibilità di pensare e dire che se scrivi una storia bella, lo è indipendentemente da tutto. “Perfetti sconosciuti” ha una situazione geniale, dei dialoghi scritti e recitati veramente bene, che sia una cena o un action movie passerebbe in secondo piano, anzi, proprio perché non ci sono orpelli emerge l’essenza. Siamo pieni zeppi di registi eccezionali, idem per gli attori, sia tra noi che stiamo lavorando, sia molti che sono a casa e aspettano solo la loro occasione, se si va in teatro ce ne sono tantissimi. Trovando storie belle e produttori coraggiosi come Lucisano per citarne uno, spiragli di luce ce ne sono.

Parlavi di tanti attori bravi che non lavorano o sono nei teatri di periferia, tra quelli che hai conosciuto da quando fai questo mestiere c’è, secondo te, qualcuno che non ha avuto ancora la possibilità di emergere come meriterebbe?
Carlo Ragone, è un attore gigantesco da cui ho imparato tantissimo. Lo conosco da quando avevo diciotto anni e facevo il laboratorio con Proietti, è un attore che avrebbe potuto dare tantissimo sia al cinema che alla fiction. Lavora meno di quanto merita. Io ho scritto gli arrangiamenti musicali di un suo spettacolo, “Intestamè”, una sorta di testamento del padre. Lui è un’esplosione di bravura, canta e balla anche. Ci sarà anche nello spettacolo al Piccolo Eliseo nella stagione 2016-2017.

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Hai preso parte a “L’età d’oro” di Emanuela Piovano in cui veniva omaggiato il cinema in modo delicato e commosso. Se dovessi omaggiare tu il cinema che è stato, come lo faresti?
L’omaggio al cinema che è stato è celebrarlo, lasciarlo così com’è, non rifarei niente. Cercherei di farlo conoscere alle nuove generazioni, tramandarlo, andando in cerca anche di cose rare, facendo in modo che un ragazzo di diciotto anni sappia perfettamente cos’è “C’eravamo tanto amati”.

Non hai nostalgia?
No, perché è lì, me lo posso andare a vedere quando voglio, ho desiderio di continuare a farlo. Mi auguro tantissimo che un ragazzino che tra quarant’anni si mette a far cinema, si possa innamorare di “Smetto quando voglio” per esempio, così com’è successo a me anni fa con “I soliti ignoti” e tutti gli altri.

Come stai sentendo l’aspettativa nei confronti dei sequel di “Smetto quando voglio”?
Altissima, penso che piaceranno da morire. Stiamo trovando quel gioco che c’era nel primo, ci sono anche scene eclatanti.

Prossimamente dove vedremo Stefano Fresi?
Il 29 settembre esce “Al posto tuo” di Max Croci con Luca Argentero e Ambra Angiolini, a marzo la fiction su Nino Manfredi su Rai Uno e il 2 febbraio esce il sequel di “Smetto quando voglio – Reloaded”.

Chiudiamo col tuo impegno con Emergency…
È un’organizzazione che va sostenuta perché è gente che spende la propria vita e le energie per il recupero delle vite altrui e ti dà la possibilità di conoscere persone come quel dottore che ha preso l’Ebola in Sierra Leone, si è curato e quando è guarito è ripartito in missione. Di fronte a questo capisci che sei veramente un privilegiato. Io in qualsiasi modo potrò aiutare Emergency, lo farò sempre. Spero di avere, un giorno, la metà del loro coraggio.

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