Birmania, la vittoria di Aung San Suu Kyi e il potere dei militari

Dopo anni di lotte, finalmente, lo scorso 8 novembre la leader birmana Aung San Suu Kyi ha vinto le elezioni con il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, ottenendo oltre il 70 per cento dei voti. Una vittoria schiacciante, una svolta epocale per  e per questa piccola signora dai modi gentili e dal carattere d’acciaio. Eppure il trionfo è velato di ombre: Aung San Suu Kiy avrà molte sfide da affrontare prima di poter formare il governo e, in una successiva, per mantenere il potere e reggere il complesso gioco di equilibri su cui si basa il Paese. Myanmar, infatti, si trova ostaggio di una dittatura militare che ha tentato in ogni modo di mettere a tacere la voce dell’eroina e paladina dei diritti umani, Premio Nobel per la Pace nel 1991.

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Non sono bastati gli arresti domiciliari, protrattisi dal 1989 al 2010 con alterne vicende, né le umiliazioni e i problemi di salute, date le difficili condizioni di vita, a piegarla e a scalfire l’amore che il popolo birmano nutre per lei. Al contrario: ogni ostacolo affrontato da Aung San Suu Kiy l’ha resa più forte, contribuendo a illuminare la sua immagine con la luce della vera democrazia, rendendola sempre più meritevole tanto agli occhi dei compatrioti quanto a quelli della comunità internazionale. Ora per questa donna combattiva si aprono nuove strade e si preparano nuove battaglie da affrontare e lei, come ha sempre fatto, non si tirerà indietro, sorretta dai principi del Buddhismo e dagli insegnamenti del Mahatma Gandhi. La prima sfida sarà riuscire a formare un governo; ci vorranno mesi, secondo gli esperti di politica birmana e il risultato, benché le aspettative siano alle stelle, non è garantito. Secondo la Costituzione del Paese, infatti, il 25% dei seggi in Parlamento spetta, obbligatoriamente, ai militari. E non è tutto: i militari hanno la facoltà di imporre le nomine del vicepresidente, del Ministro della Difesa, degli Affari Interni e degli Affari di Confine (quest’ultimo è il Ministro che si occupa di regolare i rapporti dello Stato con le minoranze etniche), ovvero accaparrarsi alcuni dei posti chiave del governo. Possono, altresì, intervenire qualora fosse dichiarato lo stato d’emergenza e, come se tutto ciò non bastasse, la Costituzione vieterebbe ad Aung San Suu Kyi di ottenere la presidenza a causa della stretta parentela con dei cittadini stranieri (il matrimonio con l’inglese Michael Aris, storico e studioso di cultura tibetana morto di cancro nel 1999 e i due figli nati dall’unione).

Visti i risultati delle urne, però, i militari dovrebbero riconoscere la sconfitta, ma non basta: la paladina birmana non può permettersi atteggiamenti ostili o provocatori nei confronti dei suoi avversari, vista la notevole capacità d’azione di questi ultimi e, nello stesso tempo, deve riuscire a far   modificare la Costituzione in maniera da arginare il loro potere e permettere, anche, la presenza di una vera opposizione politica con cui instaurare un dialogo. Così, da una parte Aung San Suu Kyi non dovrà rivalersi sui militari (e, del resto, ha già dichiarato che non vi saranno vendette, assolutamente contrarie al suo stile di pensiero e al suo modo di concepire la politica), ma dovrà riuscire a scalfire le loro prerogative e i loro privilegi. Un altro problema è il rapporto con le minoranze etniche: alla leader birmana spetta, infatti, il compito di riorganizzare, per prima cosa, il ruolo nella società della comunità islamica Rohingya che rappresenta il 4% della popolazione complessiva) e le relazioni diplomatiche con questa. Durante la campagna elettorale Aung San Suu Kyi ha evitato di sbilanciarsi troppo a favore delle minoranze, ma sa molto bene che la questione dovrà essere affrontata e ci vorrà molto tempo, ammesso che si risolva davvero, per placare l’animo dei buddisti più fanatici, da sempre contrari alla presenza islamica in Myanmar. La leader dovrà, infine, assicurarsi che i guadagni provenienti dallo sfruttamento delle risorse minerarie, fra tutte la giada, garantiscano il beneficio di tutta la popolazione e non i privilegi di pochi.

In generale la situazione economica potrebbe migliorare grazie a questa vittoria, ma sarà fondamentale agire con riforme ben studiate e inattaccabili. Trovare nuovi partner commerciali, possibilmente destreggiandosi tra l’influenza americana e quella cinese, potrebbe essere un valido aiuto. Certo, il rapporto con i militari è ciò che preoccupa di più la comunità internazionale e, da ora in poi, la strada per Aung San Suu Kyi sarà ancora più irta di ostacoli e imprevisti. La Storia, in quell’antica parte di mondo, potrebbe subire un nuovo corso; i presupposti ci sono tutti, ma bisogna, soprattutto, avere fiducia in questa nuova guida, nella sua, già dimostrata, capacità di agire con audacia. L’anima di Myanmar coincide con quella di Aung San Suu Kyi; nessuna delle due si è mai assopita nel sonno della ragione provocato dalla dittatura. Ora è il momento di riflettere e agire.

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