Quella rabbia sfogata su Facebook…

rabbiaIn questi giorni ho letto gran parte dei commenti ai post, pubblicati sulle fanpage di note testate nazionali, con l’obiettivo di capire, in linea di massima, cosa pensa una parte dell’opinione pubblica italiana su uno specifico argomento.

La mia analisi è certamente casereccia e alquanto soggettiva, visto che è difficile, quasi impossibile, essere del tutto obiettivi a causa dei paradigmi/condizionamenti mentali che ognuno di noi ha. Tuttavia mi sono accorta che il 50 per cento degli utenti usa spesso parole e frasi offensive sia nei confronti dell’autore del post, sia nei riguardi di quei lettori che magari la pensano diversamente.

Le offese reciproche, con l’uso di termini ai limiti dell’etica, sono purtroppo una costante. Ora, premettendo che la libertà di ciascuno finisce laddove comincia quella altrui (frase fatta ma necessaria), certamente i social mettono in risalto, oggi più di ieri, un malessere generale acuito dal computer e dai dispositivi mobili, attraverso i quali è possibile far sentire la propria voce spesso senza filtri. Ne viene fuori che queste piazze virtuali (Facebook in primis) diventano un mezzo attraverso cui scaricare la propria rabbia, un po’ come accade per la palestra. Queste offese e ingiurie a volte possono essere deleterie non solo per chi le subisce ma anche per i mittenti che si ritrovano più nervosi di prima. Poi, ci arrabbiamo (magari ci scandalizziamo anche) per lo scoppio di guerre passate e recenti, dimenticando che, ogni qualvolta usiamo toni aggressivi e offensivi nei confronti di un nostro simile, impugniamo le armi dell’intolleranza e del pregiudizio, un po’ come fanno i fautori delle guerre. Solo perché queste persone (dietro un computer c’è un individuo con una propria sensibilità, non dimentichiamolo mai) hanno delle idee diverse dalle nostre.

E allora mi chiedo: quali azioni potremmo compiere in nome del denaro e del potere, per esempio? Proprio oggi riflettevo sulle cause del conflitto israeliano-palestinese, su cui è difficile prendere una posizione, perché – ogni volta che cerchi di ricostruire la storia di quella guerra – devi calarti nei panni di tutti gli attori coinvolti. Così cominci a chiederti quali siano le ragioni dell’uno e dell’altro popolo e infine, con un certo malessere, capisci che, per comprenderle, dovresti vivere nel contesto socio-politico di tutte le parti in causa. Un giorno però non basta. Ci vogliono mesi, forse anni. Solo allora potrai acquisire una nuova consapevolezza e vedere le cose con occhi diversi. Questo ragionamento vale anche per il nostro vivere quotidiano. Cerchiamo, quindi, di essere più educati, sforzandoci di non aggredire quell’utente sconosciuto che attacchiamo solo per difendere la nostra opinione, di cui forse non siamo nemmeno troppo convinti.

Maria Ianniciello

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