STATUS SYMBOL

Mosaico di Aquileia

La spazzatura come status symbol, altro che ori e gioielli. Per mostrare il proprio tenore di vita non c’è niente di meglio che esibire la spazzatura di casa. Così la pensavano nell’antica Roma, dove la ricchezza delle famiglie si misurava appunto anche dalla qualità e quantità dei rifiuti, per il cui smaltimento non era ancora stata inventata alcuna tassa.

Ed è un concetto che pare mantenere la sua validità. Oggi molti giornalisti esteri vanno in confusione se provano a capire come mai Napoli piange povertà mentre continua a produrre cumuli di ‘monnezza’ fatti di residui di ogni bendidio, e poi non batte ciglio nel pagarne ‘profumatamente’ (si fa per dire) l’eliminazione mediante servizio-colf internazionale e trasporto per tremila chilometri via mare fino ad Amsterdam. Se questa storia cominciò secoli fa proprio in Italia per mero esibizionismo – si domandano gli olandesi – quello della spazzatura partenopea non sarà un caso di status symbol all’antica?

Qualche anno fa è stata fatta una scoperta archeologica davvero sorprendente, e comunque unica. E’ stato rinvenuto un carrettino di epoca romana per esibire la spazzatura. Attenzione, non un mezzo di trasporto per eliminarla, ma per portare in giro per la città qualcosa che visivamente dicesse: «Cari concittadini, stasera ho invitati a tavola, e quando invito io il livello del pranzo è questo!». Sul carrettino tirato da uno schiavo veniva messo un piccolo dipinto, o meglio un frammento di mosaico che raffigurava non una tavola sontuosamente imbandita, ma i resti immaginati dell’abbuffata promessa dal signore che si faceva portare a spasso in lettiga, preceduto da quell’avviso.

Mosaico di Aquileia (particolare)

A quei tempi, quando ci si metteva a tavola – a certe tavole, ovvio – non era educato, anzi diventava offensivo verso il padrone di casa metter da parte i residui. Addentavano carni, e gli ossi spolpati li gettavano sotto i tavoli, o li lanciavano dietro alle spalle ai piedi dei servi, addestrati però a non intervenire per pulire. Assaporavano pesce, e giù per terra le lische, una per una, con teste e code ancora attaccate. Piluccavano frutta, e disseminavano bucce e torsoli nei laghi di vino versato dappertutto nell’ebbrezza generale, affondandovi nòccioli di olive, gusci di noci, mazzetti dei fiori di ornamento delle portate, tralci di vite e, manco a dirlo, bicchieri di vetro pregiato e stoviglie di ceramica mandandoli in frammenti. Era il modo più efficace per proclamare che il pranzo era  ottimo e abbondante, come si suol dire. E guai a spazzare la sala prima che l’ultimo commensale, alzatosi dai triclini (i divani su cui si mangiava sdraiati, i signori a contatto ravvicinato con le signore), se ne andasse a dormire. Le tracce concrete e maleodoranti del banchetto dovevano restare sul pavimento, a testimoniare ricchezza e noncuranza dello spreco.

Se visitate qualche antica villa romana – quella di Aquileia, per esempio, presso Venezia – osservate il pavimento a mosaico policromo con la scena che contribuiva ad accrescere l’effetto del pranzi sontuosi che si svolgevano in quella dimora duemila anni fa. Vi è raffigurato tutto ciò che vedevano i convitati dopo un pranzo: residui d’ogni genere sparpagliati per terra in quella che gli archeologi chiamano asàroton òikos, sala non scopata. Una elegante definizione, in greco antico,  che non stuzzica l’appetito ma induce a riflettere.

Elio Galasso

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