Van Morrison, nel nuovo album canzoni da 10 e lode

La recensione del nuovo album di Van Morrison. 16 canzoni in “Duets: Re-Working the Catalogue”. 

Voto: [usr 4]

Van-Morrison-nuovo-album-canzoniChissà se mentre cantava “On the way back home we sang a song/But our throats were getting dry” nel 1970, George Ivan “Van” Morrison aveva già in mente di registrare un nuovo album di duetti assieme ad altri artisti. Anche se forse non gli passava proprio per la testa, ci ha invece pensato nel 2015 con “Duets: Re-Working the Catalogue”, ultima fatica discografica del Belfast Cowboy più famoso del mondo. Il disco è solo l’ultimo episodio di una carriera costellata, oltre che dal successo che gli è valso l’immortalità artistica, anche da collaborazioni straordinarie (John Lee Hooker, Tom Jones e Roger Waters giusto per citarne alcune) e il suo 35esimo album in studio, come suggerisce il titolo, è appunto un disco di duetti. E le particolarità sono due. La prima: i pezzi inseriti in scaletta non sono affatto dei classici presi dallo sterminato repertorio dell’artista nord irlandese, ma brani misconosciuti al grande pubblico, canzoni “minori” che Van ha scelto di riproporre in chiave diversa, attraverso arrangiamenti particolari. La seconda: i duetti del nuovo album sono a dir poco imprevedibili, in quanto si va da Michael Bublé a Mark Knopfler, da Joss Stone a Natalie Cole, passando per Taj Mahal e George Benson. Di tutto e di più, insomma, per il successore di “Born to Sing: No Plan B” del 2012. E in queste quasi due ore di musica sopraffina si scoprono (o si riscoprono) veri e propri gioielli caduti nell’oblio che Van Morrison pesca dal tesoro di famiglia, soffiando via la polvere e dandogli poi una bella strofinata sulla giacca nera. Quel tanto che basta per fare di “Duets” uno dei migliori episodi discografici di questo inizio 2015.

Van-MorrisonSedici le canzoni scelte dal quasi 70enne musicista britannico. Nessuna tratta da “Astral Weeks” o “Moondance”, i suoi capolavori, ma prese in ordine sparso dalla produzione successiva compresa tra gli anni ’70 e l’ultimo lavoro di tre anni fa. Una scelta piuttosto simbolica, in fondo, visto che Van Morrison viene quasi sempre associato a questi due lavori monumentali. Stavolta però è diverso. Stavolta i riflettori vengono puntati verso gli angoli più oscuri delle sue visioni musicali. E alcune di queste tracce brillano accecanti come pezzetti di argento nella sabbia. La qualità media del disco, infatti, è già abbastanza alta sin dall’inizio. “Some Peace of Mind”, cantata assieme a Bobby Womack, è un blues elegantissimo e più aggressivo rispetto all’originale del 1991, anche se più lento. Così come le successive “Lord, if I ever Needed Someone” (con Mavis Staples) e “Highter than the World” (assieme a George Benson) risultano versioni godibilissime dei pezzi del 1970 e 1983. Ma è con “Wild Honey” del 1980 che arriva il primo dieci e lode. Il duetto con Joss Stone si rivela estremamente azzeccato e l’anima soul del pezzo originale rimane intatta. Splendido. Ma non c’è neanche il tempo di abituarcisi perché arriva il secondo centro. “Whatever Happened to P.J. Proby” (cantata, guarda un po’, con P.J. Proby) è una canzone del 2002 da film Noir, che Morrison rende ancora più scura, morbosa e fumante, grazie anche a un ritmo molto più lento e a un combo basso-sax spettacolare. Scorrono poi la dolcissima “Carrying a Torch” e “The Eternal Kansas City” che accompagnano alla terza standing ovation del disco. È Mick Hucknall, voce dei Simply Red, ad affiancare Van in “Streets of Arklow”, capolavoro del 1974 qui riproposta in una chiave decadente e vellutata, persino migliore dell’originale. Basterebbe insomma metà del disco per togliersi il cappello di fronte a uno dei più grandi songwriters della storia. Ma poi ci sono anche “These Are the Days” in coppia con Natalie Cole, lo struggente arpeggio acustico di “Rough God Goes Riding” in cui la voce di Morrison si intreccia con quella di sua figlia Shana, i richiami agli anni ’60 di “Get On with the Show” e “Born to Sing”. Infine, in chiusura, altri tre ospiti d’eccellenza. “Irish Heartbeat” è uno splendido pezzo country-folk eseguito insieme a Mark Knopfler, totalmente a suo agio in atmosfere simili. “Real Real Gone” è affidata invece all’ugola di Michael Bublé. Canzone praticamente identica all’originale, risulta tuttavia la più frizzante e divertente dell’album. E poi arriva “How Can a Poor Boy” cantata col leggendario Taj Mahal e si sprofonda in un blues demoniaco che sbuffa zolfo da ogni nota. Un commiato di sei minuti e mezzo tramortente per intensità e nitida bellezza che diventa anche il simbolo dell’intero lavoro. “Duets: Re-Working the Catalogue” è infatti un disco in cui tanti registri diversi si incrociano dando vita a un’opera proteiforme e ricchissima e regalando della produzione di Van Morrison una visione decisamente più completa e ancora più affascinante.

Paolo Gresta

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