Zucchero e il disco Black Cat: recensione

Ascoltando il nuovo disco di Zucchero, Black Cat, in uscita mondiale il 29 aprile 2016, mi rendo conto che esattamente come lui stesso dice, esistono opere che si possono produrre soltanto in due momenti specifici della vita di un artista: all’inizio della propria carriera, quando non si ha nulla da perdere, o al culmine della stessa, quando si possono serenamente mettere in conto anche produzioni svincolate dalle pure logiche del marketing. Mi viene solo da aggiungere che quando si è al culmine di una carriera questi prodotti non soltanto sono l’espressione dell’ispirazione più autentica coadiuvata però dall’esperienza, ma possono anche farsi forti di cameo e di collaborazioni con altri artisti incontrati, frequentati, vissuti nel corso degli anni. Non è che Zucchero ai suoi esordi avrebbe potuto sollevare il telefono e chiedere a Bono un testo. O a Mark Knopfler di suonare da par suo la chitarra in un paio di tracce. O, ancora, farsi produrre ben 21 brani (per poi usarne solo 13) non da uno, non da due, ma da ben tre produttori diversi che giganteggiano nel Gotha dei produttori mondiali: Don Was per le canzoni più funky o con sonorità R&B, Brendan O’Brien per le ballad e T Bone Burnett per tutti i brani per i quali voleva un sound inaspettato. Ma sia come sia, queste collaborazioni si sono rivelate del tutto funzionali. La cosa curiosa infatti (in realtà nemmeno poi tanto) è che il suono delle tredici tracce sia sostanzialmente uniforme malgrado per l’appunto ci fossero tre diverse visioni a coordinare canzoni che di conseguenza avrebbero potuto risultare slegate. Il rischio che tre produttori con personalità tanto forti e riconoscibili (uno ha lavorato con i Rolling Stones e Joe Cocker, un altro con Springsteen, Bob Dylan e Neil Young e l’ultimo Cassandra Wilson ed Elvis Costello) dessero ognuno alla propria sezione un sapore originale rendendo schizofrenico il risultato finale. Macché. Esiste una coerenza che è rara in album di altri cantanti con un unico produttore, e che evidentemente è riconducibile allo stile personalissimo di Zucchero che ha permeato il lavoro di tutte le persone nel team creativo e di produzione, che di conseguenza hanno saputo dare al nuovo album il giusto suono e la giusta emozione secondo la visione originale che ne ha ispirato la genesi. Volendo andare di similitudine gastronomica tutte queste professionalità sono state le spezie che hanno insaporito ed esaltato l’ingrediente principale. Il cui sapore è del tutto inequivocabile.

zucchero

Nel disco Black Cat, fin dal primo ascolto, la cifra stilistica di Zucchero è infatti particolarmente evidente. L’ispirazione, dichiarata e manifesta, viene dai colori, dai suoni, dall’essenza stessa delle radici della musica black. Le piantagioni del sud degli Stati Uniti, l’eco di quello che era il battito regolare delle catene degli schiavi trasformato nel ritmo dei canti gospel, la struttura delle prison songs: Zucchero, che essenzialmente resta innanzitutto un grande musicista, ha preso tutti questi elementi e li ha trasformati in linee melodiche, in modo che diventassero l’ossatura su cui ha prima imbastito la struttura e poi confezionato la canzone. Spesso giocando con il suono delle parole nel ritornello come un novello Futurista (Il Partigiano Reggiano, il singolo scelto per il mercato italiano che apre l’album comincia con i versi “Black cat my bone/un po’ di slempito boom boom/black cat ma belle/le insidie pullulano bang bang“), riesce ben presto a veicolare i temi che evidentemente gli sono cari, e che molto spesso ricorrono nelle sue composizioni: la carnalità, una serena e consapevole libidine che si sposa con la spiritualità dell’uomo, la ricerca di libertà e di valori nell’arco dell’intera vita. In altre composizioni invece come per esempio Hey Lord, o forse ancora di più nella bellissima e struggente ballata Ci Si Arrende compare anche una malinconia di fondo e il tema del ricordo, a volte musicalmente e altre attraverso le immagini evocate dalle parole, segno forse che la maturità artistica coincide con una visione più intimista data dall’esperienza. E probabilmente non è un caso che questa stessa vena sottilmente malinconica sia riproposta anche in altri due brani i cui testi, di fatto, Zucchero non ha scritto personalmente, ma che ha saputo fare propri: la cover del brano di Avicii Ten More Days, riarrangiata completamente, e Street Of Surrender (S.O.S.), il cui testo è di Bono che si è ispirato ai fatti del 13 novembre 2015 a Parigi. Su tutto domina un arrangiamento maestoso e sontuoso che utilizza senza soluzione di continuità strumenti atipici come le chitarre resofoniche e grandi archi, fondendo il sound di New Orleans con le grandi orchestre, pianoforte e percussioni.

Se è assolutamente logico, visto il grande successo che Zucchero riscuote all’estero e la previsione di un lungo tour mondiale a partire dal prossimo settembre che dall’Arena di Verona lo porterà a Londra, Parigi, in varie città d’Europa e persino in Giappone, che siano state prodotte diverse edizioni dello stesso album, trovo invece più curioso che siano stati scelti due diversi singoli per promuovere il nuovo disco Black Cat: da noi, come accennavo prima, la scelta è caduta sull’uptempo Il Partigiano Reggiano, mentre per il mercato internazionale invece è stato selezionato il più melodico Voci. Entrambe belle, entrambe valide, entrambe anticipate da un video diretto da un videomaker visionario e di talento come Gaetano Morbioli. E in un mercato globale come il nostro è bello sapere che siamo tutti liberi di scegliere la nostra preferita. Di seguito puoi ascoltare il disco Black Cat di Zucchero.

Commenti

commenti

Lascia un commento

Torna in alto