Eco, Guglielmo da Baskerville e la morte del Giornalismo

Come avrete certamente potuto notare, non abbiamo scritto un necrologio su Umberto Eco e difficilmente redigiamo articoli che celebrano le personalità scomparse. L’individuo in questa sede ha la priorità sulla notizia; di conseguenza i clic, nonostante siano importanti nel nostro lavoro, perdono di valore quando la vita cede il passo alla morte. Qualcuno si stupisce, molti si scandalizzano per una linea editoriale «così anomala». Purtroppo (lo scrivo senza presunzione) ho letto pochissimi pezzi intelligenti su Umberto Eco e soprattutto sull’Opera che ci ha lasciato, un immenso materiale che merita di essere approfondito e capito. Sapevo di non poter redigere un articolo esaustivo sugli scritti di Eco, perché – chiedo venia – non ho letto tutti i suoi libri, perciò non avremmo potuto soddisfare la vostra curiosità senza correre il rischio di essere banali e retorici. In questo editoriale scriverò piuttosto dell’arte di comunicare, dell’inventiva, del senso critico partendo appunto da uno dei personaggi nati dalla penna di Umberto Eco. Mi riferisco a Guglielmo da Baskerville del romanzo “Il nome della rosa” (Bompiani) interpretato nel film omonimo da Sean Connery.

Guglielmo è un frate francescano, che la sa veramente lunga. Con il suo amore per i libri, anche quelli proibiti, quest’uomo così illuminato simboleggia la ragione che si oppone all’oscurantismo e alla superstizione. Guglielmo cerca di scoprire innanzitutto l’identità della persona che ha ammazzato diversi monaci di un’abbazia benedettina. Il movente è un libro proibito, nel quale Aristotele parlava della commedia e del ridere in generale. Verso il finale del romanzo la Santa Inquisizione condanna a morte una ragazza accusata di stregoneria e due monaci considerati eretici senza alcuna prova, sottoponendo alcuni degli imputati a una serie di torture che portano inevitabilmente alla confessione. “Il nome della rosa” è attuale e necessario, così come lo sono le opere di Leonardo Sciascia, di Pierpaolo Pasolini e di tanti altri intellettuali confinati nelle Biblioteche. Il romanzo di Eco parla all’Italia e all’uomo contemporaneo attraverso Guglielmo, un religioso che usava la ragione, l’intuito e l’istinto con equilibrio. Quante volte giudichiamo senza conoscere? Quante volte generalizziamo? Quante volte, dopo un avviso di garanzia divulgato a mezzo stampa, riteniamo l’indagato già colpevole? Lo facciamo sempre (o quasi), spesso inconsapevolmente, altre volte con l’intento di offendere e di calpestare la dignità dei singoli. Chi sono i responsabili? Sono la stampa, i media e la Scuola ma anche chi emette giudizi solo per proferir parola e, quindi, per dimostrare di avere una certa onniscienza.

 

Ora, la libertà di espressione è prioritaria e dimostra che la democrazia gode ancora di ottima salute, tuttavia si commette un grave errore quando si parla per sentito dire. La ricerca delle fonti, non solo online, richiede una preparazione e una capacità di giudizio che si costruisce con lo studio e soprattutto con l’esercizio costante. A Scuola a volte capita che gli insegnanti di letteratura si concentrino troppo sulla critica dimenticando i testi originali, grazie ai quali l’allievo riesce a sviluppare un suo senso critico che gli permette, poi, di esaminare in modo comparato le fonti e di capire quali siano attendibili e quali meno. Umberto Eco si è soffermato talvolta sulla capacità di giudizio nell’epoca di Internet, dove le informazioni sono molteplici, confuse, disordinate e purtroppo spesso errate. Oggi più che mai c’è bisogno di giornalisti qualificati e di testate anche online che sappiano approfondire e divulgare la notizia partendo dalla ricerca delle fonti offline. Un tempo (sicuramente ancora oggi nelle redazioni locali) si faceva il giro di cronaca. Ci si attaccava al telefono in cerca della notizia di apertura; mi è capitato di invitare spesso gli aspiranti giornalisti a consumare la suola delle scarpe, come facevano Enzo Biagi o Indro Montanelli, in cerca di storie valide oppure, nel caso della critica (quando c’è bisogno di reperire un’informazione), di cercare fonti attendibili fuori dal web, invece di estrapolare contenuti vari dalla Rete o peggio ancora di fare quel copia e incolla che sta decretando la morte del vero giornalismo. Tutto ciò che non usiamo lo perdiamo collettivamente, perché – come suggeriscono le neuroscienze – siamo tutti collegati, quindi la trasmissione del sapere autentico è vitale per un’umanità che rischia di appiattirsi perdendo così la memoria storica e collettiva, la quale è l’unica via per la decodificazione corretta delle informazioni. La memoria ci permette di far tesoro all’occorrenza di quanto appreso per evolverci e non per esibire nozioni stantie con l’obiettivo di far rivivere un passato che esiste solo nella nostra testa.

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