Adulazione: siamo tutti un po’ lecchini?

Ero seduta nell’ufficio del caporedattore, che doveva correggere la mia bozza di articolo da giornalista alle prime armi, quando sentimmo bussare alla porta. Dopo il classico e annoiato «avanti» del mio interlocutore, entrò nella stanza un ragazzo poco più grande di me, con occhiali spessi e atteggiamento ossequioso, che gentilmente chiamavo “la talpa”, salvo poi ricordare a me stessa che pure io ero “quattrocchi”.  Lui guardò il caporedattore e disse tutto d’un fiato: «Volevo complimentarmi per l’ottimo editoriale che ha scritto. Bravo, ho anch’io le sue idee».  «Ti ringrazio, ma non ce n’è bisogno!», disse il mio superiore liquidandolo in men che non si dica.

Questa vicenda, che vi ho raccontato, è vera e mi è tornata in mente pochi giorni fa grazie a un numero de il Venerdì di Repubblica (6 novembre 2015, ndr), il cui titolo di copertina è Adulazione: Istruzione per l’uso. L’articolo trae spunto da “Il manuale del leccaculo”, il libro di Richard Stengel (edizione italiana Fazi), Sottosegretario di Stato Americano, che certo ne avrà viste di tutti i colori in fatto di ruffianeria. I lecchini, si sa, esistono da sempre e anche nelle corti chi si avvaleva dei mecenati era po’ ruffiano per non perdere il lavoro; quindi doveva annullare completamente il proprio senso critico. Ne vale la pena? Io penso di no. Ritengo che la ruffianeria sia parte integrante del carattere di una persona ed estirparla è impossibile. La piaggeria non fa rima mai con gentilezza, perché si è gentili non per conquistarsi le simpatie altrui e dunque per uno scopo. La gentilezza è intrinseca, cioè è parte integrante della personalità di un individuo che non ha bisogno di far complimenti, per lo più non richiesti, per ottenere una promozione o un incentivo. Eppure, il Paese del clientelismo è pieno di lecchini che per scalare le vette sociali dicono o peggio ancora fanno cose che nemmeno pensano o vogliono apparendo ridicoli, artefatti, poco spontanei. Il tutto per ottenere subito gratificazione e riconoscimento materiale. Le relazioni così saranno effimere perché basate su presupposti sbagliati e, quindi, non sull’autenticità. Dopotutto viviamo in un mondo di cartapesta, fatto di lustrini, dove ogni cosa (pure la Politica) è spettacolo. L’arte dell’apparire è ormai una costante.

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I social hanno migliorato, per certi aspetti, le nostre vite rendendole al contempo pubbliche e, quindi, basate sulla menzogna, perché nessuno potrà mai essere se stesso fino in fondo al cospetto di una platea virtuale. La società si è tinta di buonismo e, come si vede nel cartone animato Inside Out, la tristezza, che ha una sua utilità, è bandita a vantaggio di emozioni certamente belle e positive, quali la gioia, che però non si possono provare sempre. Da qui anche l’incapacità di mostrarsi per quel che realmente si è e allora ciascuno (anche chi non è portato) rischia di incappare in atteggiamenti adulatori solo per ottenere fiducia e amicizia, forzando se stesso e gli altri. Da qui la rabbia e il senso di frustrazione. Potenzialmente siamo tutti un po’ lecchini. Attenzione, però! Non pronunciate mai la parola leccaculo, giacché, secondo la Cassazione penale, questo termine è ingiurioso, come avvertono gli autori dell’interessante articolo.

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