Vittorio Sermonti, Se avessero: trama e recensione

Se avessero è il primo romanzo, edito da Garzanti, di Vittorio Sermonti, studioso, narratore, saggista, traduttore, giornalista, poeta e regista di radio e TV, amante della Divina Commedia, che per Rai 3 dal 1987 al 1992 ha commentato per intero, dell’Eneide, del teatro e della cultura tutta. Giunto tra i cinque finalisti del LXX Premio Strega, il libro, fortemente autobiografico, racconta settant’anni di storia personale e condivisa facendola ruotare intorno a un episodio anticamente vissuto e poi rivissuto infinite volte nella mente dell’autore e nelle pagine dello scritto: Via del Domenichino, 41, in zona Fiera, a Milano, dieci e un quarto circa di un mattino di maggio del 1945, il capoluogo lombardo è appena caduto “come una pera” nelle mani delle forze partigiane e l’intera famiglia del protagonista (un padre, una madre, 3 sorelle e 4 fratelli) è riunita nell’ingresso del villino al cospetto di tre giovani armati di mitra. Se i tre partigiani avessero sparato e ucciso FM, il maggiore dei fratelli, ventiquattro anni ancora da compiere, il quale trovandosi ad Atene nell’estate del ’43 si era arruolato nell’esercito tedesco dopo l’Armistizio, la vita di Vittorio sarebbe cambiata per sempre. Per tutta la durata del romanzo l’autore ritornerà più e più volte sul luogo del non delitto, dov’era accampato con la sua famiglia, cercando di ricordare più vividi i dettagli e di entrare di volta in volta nei gesti e nell’interiorità di ognuno dei presenti. Ecco che quell’ingresso-ingressino della casa milanese diventa nel libro un palcoscenico teatrale su cui provare e riprovare la medesima scena che vede come unico vero attore FM; gli altri invece non parlano, nemmeno il padre anche se “fra tutti era lui quello tenuto ad accusare di più il carico delle responsabilità morali e logistiche di tutta la compagnia”. Ricordare riporta lo scrittore a rivivere quegli anni fatti di “montagne e cordigliere di cadaveri, città sbocconcellate e nere d’un nero bagnato e freddo, un arcipelago di prigioni circonfuse di filo spinato e con delle finestre minuscole, donne atterrite e pazze d’ansia bambini grigi, immense puzze di carne morta, fami interminabili, paludi di sangue” e del terrore della morte che lo spinse a considerare l’armadio come l’unico posto sicuro dove poter dormire. Le leggi razziali s’intrecciano agli amori sbagliati e gli eventi della storia spingono il protagonista ad aderire, in un primo momento, alla morale del tempo facendogli professare un “fascismo deduttivo e triste”.

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Leggendo Se avessero di Vittorio Sermonti, si viaggia su e giù nello spazio e nel tempo di una vita intensa immersa nella contemporaneità: dal secondo dopo guerra, alla breve adesione al PCI, dal sequestro di Aldo Moro al trasferimento negli anni ‘60 al di là della cortina di ferro, a Praga, laddove l’autore si convinse ancor più che al “socialismo scientifico” sarebbe dovuto necessariamente subentrare quello “filosofico – artistico – letterario”. I libri, la musica, il teatro e il cinema hanno accompagnato Vittorio in ogni esperienza vissuta appieno per lo scampato pericolo di avere un fratello ucciso. Studiare latino a Roma, lavorare in RAI, trasferirsi a Brema, scrivere per diverse testate, lavorare nel Teatro Stabile di Torino. “A tredici anni, nel cuore del conflitto mondiale circostante, io sono stato Shakespeare e i suoi personaggi uno per volta, ma anche il capocomico ero, e i singoli attori e le singole attrici, il fondo-scena finto-lontano, le luci, il sipario, le musiche, l’odore di vecchi sudori e il tradizionale dito di polvere grassa sulle tavole del palcoscenico”, scrive Sermonti che considera il teatro immenso come l’infinità delle città inesplorate ma continuamente immaginate. Sul fronte più intimistico del romanzo a dipanarsi sono le relazioni familiari, quelle tra Vittorio e il padre con il quale è legato da un rapporto di amore e protezione, quello spesso inspiegabile con la “mamma assenza” e quello con i fratelli e le sorelle, in particolare con FM al quale si rivolge direttamente nella conclusione del libro: “Se ti avessero sparato, sarebbe cambiato il mondo e nessuno se ne sarebbe accorto. […] non contiamo niente, perché ognuno conta purtroppo tutto”. È complicato stare al mondo “in un oceano di altri” ma forse lo scrittore pensa che lo sarebbe di più stando da soli.

Se avessero ha una sua interlocutrice prediletta che Vittorio Sermonti ci presenta con due dolci epiteti Bei Ginocchi e Occhi Pescosi ma si rivolge anche ai suoi lettori con uno stile che è un po’ come la vita, aulico ma in egual misura irriverente, poetico e allo stesso tempo diretto e tagliente. L’idea dell’autore di scrivere questo libro, che lui stesso definisce “opera ultima”, proprio perché contiene gran parte del suo vissuto, è nata in un baretto affacciato sulla spiaggia di Kapsàli, in Grecia, leggendo Vita e destino di Vasilij Grossman, chissà se a qualcun altro verrà in mente di compiere la stessa impresa leggendo Se avessero di Vittorio Sermonti.

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