Il ‘più’ e il ‘meno’: l’altalena di cibo e desiderio

Scende un altro boccone, ma il barattolo appena chiuso è ancora a portata dello sguardo. E’ lui a comandare alla mano di riaprirlo. Un altro cucchiaino, e di nuovo viene chiuso. Ma, quando scompare il sapore dalla lingua e da tutte le papille, il desiderio – sarebbe più corretto chiamarlo dipendenza – è di nuovo in agguato al posto di comando. Si tratta di un grande appetito, quello della vita, rimasto inappagato a causa di inadeguatezze personali o appartenenti a coloro che il caso ha posto al nostro accudimento. Prima, fra queste, certo è l’amore, ma anche la garanzia di essere accuditi in armonia, cosa che spesso equivale a conoscenza.

            La mente procede per via di sostituti e li baratta con le nostre verità. Una volta che si sia stampata la mappa degli ‘oggetti’ mancanti, si apre nell’anima un vuoto di sostanza che, talvolta, invoca l’istinto della morte attraverso la spina della depressione, talvolta invece s’illude di colmare le mancanze  investendo il cibo di poteri riparativi dell’insoddisfazione assaporata un tempo.  Ma il problema, purtroppo, si ripropone anche per insuccessi momentanei, talvolta anche banali, capaci di ‘evocare’ il vuoto originario. Lo spostamento, si sa, appartiene alla sintassi della mente, per cui il problema viene spostato sul cibo, dotato com’è di fattezze adatte ai cinque sensi. Il proposito di adeguarlo alla misura salta via appena l’ultimo boccone che ci spetta viene spinto, già con nostalgia, in basse vie sbarrate alla visione.

        L’appagamento estatico non abbandona la persona che, situata in una sosta dall’angoscia, non intende per niente ritornarvi. E così una vocina, da lontana che era, si fa sempre più vicina, sussurrando di mangiare ancora, poco poco, in modo che le calorie previste siano leggermente superate, solo leggermente. Ma la cosa si ripete a ogni boccone, finché, essendo il programma iniziale assolutamente andato in fumo, non rimane altro da fare che assaporare senza alcun rimorso tutto il cibo che s’incontra, fino a quando la dilatazione di stomaco e zone sottostanti, premendo fino al cuore, pone l’alt all’abbuffata.

        La cosa si complica quando il cibo ingerito viene avvertito come un intruso invasore che   presto si trasformerà in carne: la propria carne! Il pericolo si avvale del rimedio; stanca e finalmente svuotata, la persona riposa finalmente: l’intruso è stato espulso. Sorge una domanda: estromettendo l’invasore, non è per caso che si estromette anche parte di se stessi?

            È  qui che l’allucinata ingurgitante porge la mano, stranamente, a quell’altra che, invece di vomitarsi insieme al suo problema, lo inserisce questa volta nello sguardo della mente, impegnato a controllare nello specchio la forma di se stessa. Dal ‘più’ si passa al ‘meno’, sorvolando anche stavolta la misura. L’appetito della propria anima, rimasto insoddisfatto, anziché camuffarsi in inflazione, negativizza se stesso in ascetica bugia, trasformando il ‘più’ in ‘meno’. In soccorso della pervertita perfezione della forma, si dispone anche la visione, ammalandosi di tempestivo dismorfismo nel segreto dello specchio, abbarbicato in una paranoica altalena altamente borderline, che saltella nello spazio verso l’alto e verso il basso.

 Le frustrazioni non sanate in tempo corrodono il senso della vita: a chi rivelare quel sentimento di distruttiva solitudine, fatta di autocommiserazione ma anche di innominata nostalgia, di un tempo, un luogo, una persona?

      La nostra ombra non possiede una semantica palese come quella del linguaggio: potrebbe procedere per semplificazioni, articolando in meno o in più l’energia pulsionale, dove il meno sembra essere sinonimo di morte. I due segni si fanno spesso compagnia: nella bulimia, infatti, la mancanza antica determina un eccesso successivo. Ma nell’anoressia siamo di fronte a una mancanza – digiuno – seguita a una mancanza precedente. Qui s’inserisce l’implicanza dello specchio con il conseguente dismorfismo, che, come indica la parola, comporta uno spostamento concettuale del sintomo, una retroversione di 180 gradi, dal troppo al niente. Questa volta il ‘più’ appartiene alla perfezione, mentre il ‘meno’ si accontenta di accompagnarsi al metodo.

     Ma è sulla scena dell’inconscio che ha luogo la propria verità: il soggetto malato assapora il perverso piacere di tormentare il suo carnefice di un tempo esibendo ai suoi occhi la distruzione del suo corpo privato dell’amore, attribuendosi l’allucinata onnipotenza di creare la sua morte.

Pina Arfè

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