The Zero Theorem, la recensione del film

locandina-the-zero-theoremPresentato nel 2013 alla 70° edizione della Mostra del cinema di Venezia, “The Zero Theorem” di Terry Gilliam è la summa della poetica immaginifica di un autore che, dopo alcuni progetti falliti e film di scarso successo, ha continuato a mantenere vivide le sue ossessioni, con tenacia e spavalderia. Figlio legittimo delle sue precedenti parabole distopiche, “Brazil” e “L’Esercito delle dodici scimmie”, questo nuova, audace opera visionaria mescola caroselli policromi e circensi, ambientazioni futuristiche, estetiche cyberpunk e creazioni tecnologiche con effetto vintage. Senza ombra di dubbio, un grande ritorno per l’ex Monty Python. Il Teorema zero è un assioma, un algoritmo che postula una realtà catastrofica: la materia, l’energia, le stelle e i pianeti sono errori del Big-Bang e l’universo, senza speranza, è destinato a contrarsi irrimediabilmente in un buco nero. Spetta a un solitario individuo, mr. Qohen, interpretato da un misurato e impassibile Christoph Waltz, svelare il mistero dell’esistenza sul pianeta Terra, dopo che avrà decifrato con esattezza il codice informatico. Secondo quanto stabilito dalla tecnologia dell’epoca, la vita non ha alcuno scopo perché le forze gravitazionali, divenute talmente forti a causa delle contrazioni dell’universo, faranno sparire il centro del cosmo in un imprecisato punto zero, da cui, appunto, il fatidico “Theorem”. Qohen, analista numerico (ma lui si definisce “analista di entità”) presso la Mancom, è stanco di presentarsi ogni giorno al lavoro e vorrebbe non uscire mai dalla sua strana dimora, metà cappella in disuso e metà rifugio archeologico con corredo di strumenti e suppellettili non più utilizzate. Egli stesso sembra una rovina di un’altra era, in perenne attesa di una telefonata che potrebbe donargli illimitata felicità. L’irruzione improvvisa di un adolescente, Bob, e soprattutto le multiple apparizioni, virtuali e non, di Bainsley, avvenente bionda che prova a sedurlo in ogni modo, cambieranno il destino della sua ricerca. Lasciamo da parte le spiegazioni pseudoscientifiche, non curiamoci di alcune incongruenze nello script e sforziamoci di immaginare il futuro della razza umana come un inferno hi-tech non facilmente contestualizzabile, dominato da connessioni multiple e vite reali vissute esclusivamente tramite ininterrotti up-load. Tutto è connesso alle sinapsi cerebrali della gente, in un continuum di immersioni e naufragi nel cyber-spazio onnicomprensivo. Nella realtà distopica si consuma la tragedia collettiva del genere umano e la catabasi individuale di Qohen, ultimo dei romantici depressi nella stratosfera informatizzata. Lo vediamo alle prese con sgargianti tute in velcro, marchingegni bizzarri, macchine sofisticate che funzionano a pedali (!) e strane caricature di esseri umani, i nuovi inconsapevoli “freak” del futuro, figurette volutamente surreali e iperboliche. Nel parodistico affresco fuori dal tempo storico, le chiese non sono più adibite a luoghi cultuali, perché tutti hanno abbandonato la fede e ognuno si esprime con la forza di un linguaggio concettuale e stratigrafico. L’anima dell’uomo è svanita in uno dei tanti buchi neri galattici e gli individui disconnessi dalla “rete magna” cessano di vivere morendo nell’incoscienza. Il protagonista, un inedito Waltz sofferente e completamente calvo, affronta un percorso di formazione “spirituale” in una dimensione sospesa tra realtà e allucinazione, con programmi computerizzati e suadenti avatar (la sensuale Bainsley), sfruttando l’estetica ludica dei social network che inneggiano alla spersonalizzazione dell’individuo. Qohen è “uno, nessuno e centomila” e il resto del mondo aspetta solo di svanire nel turbinio di una supernova esplosa.

Trailer: http://youtu.be/D2lvk6f7glo

                                                                                                                                 Vincenzo Palermo

Commenti

commenti

Lascia un commento

Torna in alto