Roma, al Teatro dell’Orologio c’è Emigranti: recensione

©Manuela Giusto
©Manuela Giusto

Ancora per una settimana in scena, fino all’8 novembre al Teatro dell’Orologio di Roma, Emigranti di Slawomir Mrozek, scritto dal drammaturgo polacco nel 1974 e argutamente riproposto dal regista Giancarlo Fares. Debutto felicissimo durante il Todi Festival 2015, continua a riscuotere grande successo di pubblico nel centralissimo teatro romano. Due emigranti qualsiasi, diversi per estrazione sociale e motivazioni, in un qualsiasi sottoscala di una qualsiasi città, anche se qualche segnale di localizzazione geografica arriva comunque (le note dell’Internazionale che filtrano dall’esterno) e lasciano immaginare un Paese dell’Est europeo. E’ vero che la bella messa in scena di Fares e Blanchi attualizza e, in qualche modo, rende universale (come potrebbe non esserlo, oggi?) la tematica affrontata, ma quello che si evidenzia durante lo spettacolo, oltre ad una difficile comunicazione tra due persone così diverse, è il livello del testo che nel secondo atto diventa un vero trattato di filosofia sociale. Modalità usuale nella letteratura classica russa, forse un po’ datata nel contesto della commedia, ma sicuramente di altissimo profilo. I due emigranti nella cantina fuggono dal proprio paese, uno “per qualcosa”, l’altro “da qualcosa”. Il primo, povero in patria e povero adesso, pragmatico, teso esclusivamente a soddisfare i bisogni essenziali e col miraggio di un ritorno a casa da benestante. Il secondo, intellettuale in fuga da un regime totalitario, chiuso nei suoi studi sulle classi sociali. Le loro visioni della vita si scontrano ferocemente, inevitabilmente si abbassano al livello del sottoscala in cui sono costretti a vivere, in dialoghi serrati e quasi surreali, mentre la città sulle loro teste festeggia allegramente il capodanno. I rumori della vita dall’esterno (bellissimi gli effetti sonori) penetrano nelle mura, acuendo il loro senso di prigionia claustrofobica. Due brandine, un tavolo, una lampadina, questo è tutto il loro mondo di “parassiti” nel ventre della città. Tra i due personaggi, caratterizzati fortemente nei rispettivi clichè, ben presto si scatenano ripicche, accuse reciproche, al vetriolo, piccole crudeltà, sempre al limite tra il dramma e la farsa, dove ognuno distrugge i sogni dell’altro, nell’attesa di qualcosa che sembra irraggiungibile, mentre la vita scorre inesorabile.

©Manuela Giusto
©Manuela Giusto

In Emigranti Fares e Blanchi, affiatatissimi, mettono in scena due personaggi che stridono l’uno contro l’altro, tanto quanto la dicotomia sociale evidenziata dal non semplice testo di Mrozek. Il personaggio di Fares di umili origini contadine, nella sua maschera buona, quasi infantile, cela una determinazione che lo porterà a sfiorare l’omicidio del suo compagno di cantina. Quello di Blanchi, l’ipercritico intellettuale in fuga da un regime, nasconde la fragilità e la disperazione di chi, suo malgrado, si rende conto che ben poco si può cambiare nelle dinamiche col potere. Entrambi vittime, di schiavitù differenti, in cuor loro sanno che non torneranno mai più nel proprio Paese, mentre fuori si continua a festeggiare l’anno nuovo. Ottima la regia (con Fares sarebbe sorprendente il contrario), belle le musiche e la scena di Alessandro Calizza, che realizzano un’atmosfera suggestiva. Un testo di più di trenta anni fa, ma sempre attuale, ironico e intelligente nel proporre con leggerezza, ma non troppa, e con un continuo, struggente velo di nostalgia, un tema amarissimo. voto: [usr 4]

 

 

Info aggiuntive su Emigranti

Roma, Teatro dell’Orologio – Sala Gassman (via dei Filippini 17/a) fino all’8 novembre 2015

Compagnia Mauri-Sturno presenta: Emigranti, di Slawomir Mrozek.

Con Marco Blanchi e Giancarlo Fares. Regia di Giancarlo Fares. Aiuto regia Vittoria Galli e Viviana Simone. Scene Alessandro Calizza. Costumi Gilda.

Grafica Simone Calcagno. Foto di Manuela Giusto

Si ringrazia l’ufficio stampa della Compagnia nella persona di Rocchina Ceglia.

Commenti

commenti

Lascia un commento

Torna in alto