Luigi Lo Cascio, l’intervista

Luigi Lo Cascio ha scoperto anche grazie agli incontri fortuiti che il destino ci mette davanti la strada da intraprendere. Lui ha iniziato a percorrerla con passione, supportato pure dai compagni di viaggio incontrati durante l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, sotto la guida del maestro Orazio Costa Giovangigli. Nel 2002 ha fatto parte dei protagonisti de “La meglio gioventù” di M. T. Giordana, a cui deve il primo ruolo cinematografico, memorabile il suo Peppino Impastato de “I cento passi” con cui ha vinto il David di Donatello nel 2001. Non si può ridurre in poche battute il suo curriculum tra teatro, cinema e tv, perciò preferiamo lasciare la parola a lui. In quest’intervista Luigi Lo Cascio si racconta a partire da “Questa sera si recita a soggetto” di Luigi Pirandello, per la regia di Federico Tiezzi, con cui è in scena fino al 24 marzo al Piccolo Teatro Grassi di Milano, per poi portarlo in tournée. L’attore non ci risparmia anche momenti in cui con affetto e sorrisi teneri ricorda il suo maestro, gli inizi e l’incanto, provato da giovanissimo, nel vedere recitare i grandi attori, scoprendo così la magia del teatro.

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Luigi Lo Cascio, com’è nata l’idea di portare in scena questo spettacolo e com’è arrivata la Sua partecipazione?
Il Piccolo Teatro ha proposto a Federico Tiezzi questa regia, il quale aveva già lavorato su due testi pirandelliani “I giganti della montagna” e “Non si sa come” e credo che lui abbia accettato molto volentieri. Ho potuto valutare durante le prove il continuo innamoramento di Tiezzi per questo testo a cui già si era dedicato realizzando con Sandro Lombardi la drammaturgia. È stato Federico a pensare a me perché già avevo lavorato con lui prima dell’Accademia. Ho fatto una parte nel 1989 in “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, interpretavo il ragazzo, ruolo che solitamente viene tagliato in alcune messe in scena. Per fortuna mia lui non lo fece e mi scelse. Io allora ero studente di medicina, avevo solo un po’ di bagaglio di teatro di strada e cabaret e, per caso, mi sono imbattuto in quest’esperienza che mi ha radicalmente trasformato. Assistevo alle prove con attori bravissimi come Virginio Gazzolo, Franco Mescolini, Gianluigi Pizzetti e osservavo con stupore quel momento di lavoro che fanno gli attori durante la prima settimana a tavolino, in cui sviscerano tutto ciò che può venire fuori dalla parola di un testo. Per me che studiavo medicina e non pensavo di far l’attore è sembrato qualcosa di incredibile e molto seducente. Grazie anche alla tournée al Carignano a Torino o al Quirino a Roma, guardando lo spettacolo dalle quinte ho provato una serie di suggestioni che mi hanno fatto comprendere ciò che volevo fare. Con Federico, da allora abbiamo continuato a sentirci, qualche volta ci siamo incontrati e ci eravamo promessi che prima o poi avremmo fatto qualcosa insieme. Forse anche il fatto di aver fatto io delle regie teatrali l’hanno fatto propendere, credendo che potessi avvicinarmi all’idea che fosse possibile che io rappresentassi un regista.

Quanto di Luigi Lo Cascio c’è nel dottor Hinkfuss, un regista che riesce a far comprendere a tutti una parte così complessa e teorica di questo testo?
Di mio personale non saprei e cerco di non occuparmene perché mi paralizzerebbe l’idea di sapere che porto qualcosa di me. Ho cercato di mettermi a servizio dell’idea di Federico per realizzare questo regista molto logico, algebrico, geometrico. Hinkfuss ha questa doppia natura, una più da matematico che espone un teorema, delle idee precise su cosa significa mettere in scena un’opera; dall’altra è un personaggio così appassionato della materia e dell’esperimento che sta presentando al pubblico, che ha delle forme febbrili, di entusiasmo. Potremmo dire che è un logico acceso, non è spento dalle formule rigide. Lui vuole renderle vitali, è qualcosa che accade in vivo. Io sono un regista relativamente, ho debuttato dietro la macchina da presa e ho diretto alcuni spettacoli (“La caccia”, 2008 e “Otello”, 2014, nda). Per me è un’esperienza particolare che passa per un lavoro di scrittura. Se io non scrivessi il testo o non lo adattassi, non saprei da dove cominciare. Non ho questa capacità, a partire da un testo, di forzare l’immaginazione o lasciarla galoppare portando a una nuova scrittura che è già scenica come nel caso di Federico. Lui, sin dagli esordi, ha subito considerato il palcoscenico come una pagina su cui scrivere lo spettacolo. In questo senso io sono un alter ego di Federico Tiezzi prima che di Hinkfuss. Un aspetto che coincide molto col personaggio è la sua attenzione costante affinché il pubblico segua un pensiero nel suo farsi perciò risulta comprensibile come spettacolo.

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Per quello che la riguarda pensa di continuare nella direzione di riscrittura anche come regista?
Per ora sì. Io rimpicciolisco i testi, denuncio subito che non mi confronto con delle opere così colossali. Con la riscrittura compio un’operazione di fortissima riappropriazione, è come se mi cucissi addosso un abito più adeguato alle mie possibilità che sono più limitate. Quando, invece, si ha a che fare con dei testi così importanti e il regista lo porta in scena così com’è – certo con un lavoro drammaturgico come in questo caso – vuol dire che questi vuole mostrare un modo inedito e personale di guardare l’opera supponendo che questo modo sia interessante anche per gli altri.

Quindi chi è per Lei il regista? Qual è la sua funzione?
Pensando al mio background e ai miei gusti, credo che Hinkfuss porti troppo alle estreme conseguenze qualcosa che è vero. È vero che l’opera teatrale non è lo spettacolo, sono due cose diverse. Mentre Hinkfuss a partire da questa differenza decide di marcare la distanza dal testo, preoccupandosi della sua creazione scenica; io anche se decido di far un giro e quindi lo riscrivo, lo faccio per tornare a qualcosa che nell’opera è presente. Non la regia come manifestazione dell’espressione megalomane che Hinkfuss esprime dicendo spesso “io, io”. Per fortuna ci sono gli attori che fanno da contrappeso anche con la loro umanità e la novella che continua a diffondere il suo spirito. Per come vivo io la regia spero che arrivi qualcosa di “suo, suo” e cioè dell’autore di partenza. In fondo è anche il motivo per cui realizzo lo spettacolo. È proprio perché quel testo mi ha soggiogato, ponendomi in una condizione di vertigine, che decido di mostrare questa tensione al pubblico perciò mi sembrerebbe assurdo distaccarmene troppo.

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A proposito della parola e di Luca Ronconi con cui ha avuto anche occasione di lavorare. Questi nel suo ultimo intervento pubblico ha detto che presto sarebbe stato necessario un ritorno al teatro di parola. Lei cosa ne pensa?
Certo perché ogni forma d’arte ha qualcosa che è il suo specifico più specifico ed è la cosa su cui rimane imbattibile. Considerando un’esplosione dell’immagine in vari campi, dal cinema al video, è chiaro che ciò che è più proprio è un corpo che si mostra allo sguardo dell’altro, ma immediatamente intona un canto. Si può cantare anche con una musica interna che suggerisce la necessità di questa particolare parola. Credo che ci sarà sempre la necessità di ascoltare il canto di qualcun altro. Quindi, siccome la parola la si continua a usare, direi parola piena, densa perciò parlo di canto perché, a un tratto, ti viene di cantare e non puoi farne a meno. Canto come parola necessaria con l’attenzione che non sia quella della vita quotidiana. Potrei dire anche poetica al posto di canto. Senza dubbio deve essere una parola trattata in maniera tale da essere interessante e seducente su un palcoscenico.

Le è mai capitato di “recitare a soggetto” e quindi di improvvisare?
Sì anche perché ho cominciato proprio dal cabaret e lì c’è uno spazio. Poi anche al cinema è capitato nonostante ci siano delle sceneggiature scritte, magari si tratta di un dialogo tra due amici e non è stato specificato cosa si dicono e lì il regista ci ha invitato a inventare. In teatro, per esempio, mi è accaduto con “Otello”. A un vuoto di scena di un personaggio e quindi dell’interprete, io e Vincenzo Pirrotta ci siamo messi a improvvisare attendendo che l’attore si ricordasse di rientrare in scena. La difficoltà è che inventare facendo Shakespeare non è semplice perché devi mantenere un linguaggio adeguato perciò può verificarsi anche a partire dagli incidenti di scena. Ogni tanto anche in “Questa sera si recita a soggetto” certe battute di interlocuzione col pubblico le dico, appunto, a soggetto. Anche io cerco di essere presente a me stesso e alla situazione per cui, se capita, c’è quel richiamo all’interlocuzione reale.

In questo allestimento si è ritrovato a lavorare con Sandra Toffolatti. Con lei ha condiviso l’esperienza dell’Accademia d’Arte Drammatica in quella classe definita da molti “fortunata”, visti anche gli altri colleghi e amici emersi, da Alessio Boni a Fabrizio Gifuni, senza dimenticare Pierfrancesco Favino. Luigi Lo Cascio, c’è un ricordo che vuole condividere con noi?
Siamo talmente legati a quella forza trascinante di quel periodo e di gruppo che, parlandone anche con lei, ci rendevamo conto di quanto non li vedessimo come degli anni lontani. Son trascorsi quasi venticinque anni da quando siamo usciti dall’Accademia eppure non lo sentiamo. Con lei poi ho condiviso anche le prime esperienze di lavoro al C.S.S. di Udine ed è lei che è stata la persona che mi ha spinto a scrivere. Io durante la scuola scrivevo delle poesie, piccole prose, poi nel ’95 a Udine ci proposero di fare qualcosa di nostro e Sandra mi invitò a farlo. Lì diedi vita a “Verso Tebe”. Erano gli anni in cui io non avevo ancora fatto cinema ed era anche difficile trovare qualcuno che mi producesse non essendo propriamente uno scrittore. Sandra e Alessio (Boni, presente anche lui in questo spettacolo, nda) mi incoraggiarono in tale direzione. Con questa affettuosa insistenza ho scoperto questa mia passione per la scrittura.

Lo Cascio con Gifuni
Lo Cascio con Gifuni

Non avete mai pensato di mettere in scena quell’“Amleto” che stavate provando con il vostro maestro?
Siamo in tanti e poi chi potrebbe fare adesso Amleto per quanto non passa mai il tempo per questo personaggio. Ormai potremmo fare Claudio. Poi è stata un’esperienza talmente bella, abbiamo anche un rapporto di venerazione, provi quel troppo amore per cui diventa anche scoraggiante e pensi che non saresti mai in grado di farlo.

Orazio Costa ha detto: «il teatro è una delle poche strade rimaste all’uomo per salvarsi». Anche Lei crede che sia così?
Costa si può permettere pensieri di questo tipo. Io mi sento “minuscolo”, non oso neanche avere un pensiero del genere. Lo ribalterei e direi: speriamo che l’uomo sopravvive così forse ci sarà ancora del teatro. Vediamo cosa succede all’uomo. Se ci sarà uomo, ci sarà teatro o si potrebbe pensare ancora: se ci sarà teatro, ci sarà uomo.

In un tempo in cui molti grandi maestri ci hanno lasciati, Lei sente una responsabilità verso chi vorrebbe fare questo mestiere o chi si sta già affacciando?
Per fortuna non ho questa sensazione. Mi sento sempre discepolo anche se mi è capitato di tenere delle lezioni in Accademia. Mi sembra di stare sempre tra compagni, magari sapendo qualcosa in più degli altri. Non ho un metodo da suggerire, non ho un sapere staccato dalla prova nel suo verificarsi. Certo rispetto a chi comincia ho qualcosa da dire in più, ma senza mettermi in una posizione magistrale perché non sono capace. Invece personalità come Costa, Ronconi sono stati davvero dei maestri, con sapienza, intelligenza e una generosità incredibile perché hanno dedicato la loro vita solo al teatro.

Per Lei c’è un ricambio oggi?
C’è già nei fatti. Ogni tempo esprime le sue potenzialità, quelle di adesso sono rappresentate per lo più – a parte casi isolati di registi – da esperienze più comunitarie come Socìetas Raffaello Sanzio, Motus, Fanny&Alexander. Ci sono realtà diverse rispetto alla figura centrale del regista che impone una linea.

Pensando alle situazioni attuali anche relative al cambiamento climatico, cosa direbbe il Suo Michele Grassadonia, protagonista dell’opera prima da Lei diretta “La città ideale” (2012)?
Anche se lo spunto di quel lavoro aveva a che fare con l’ecologismo, a me interessava soprattutto l’eccesso di un’ideologia, termine che purtroppo è stato connotato da un’accezione negativa, più totalitaria. Il film mette a tema la caduta di chi insegue gli ideali in maniera fanatica, rappresentando quanto l’idealità sia spesso un appiglio che ci aiuta a sopportare certe mancanze e vuoti.

Mi sembra ancora molto attuale come film e discorso…
Certo, è sempre attuale perché siamo tutti in cerca della città ideale che corrisponde a un’identità plausibile, che possa restituire un’idea di noi per noi stessi e da mostrare agli altri. Siamo sempre in questa condizione di rischio di arroccamento nella nostra identità.

Quali sono i Suoi prossimi progetti?
Dovrei girare un film in estate-autunno, ma è tutto in divenire perciò non posso dire di più.
Sicuramente riprenderò lo spettacolo “Il sole e gli sguardi – La poesia di Pier Paolo Pasolini in forma di autoritratto”, una coproduzione C.S.S. Teatro Stabile di Innovazione del Fvg/Teatro Metastasio Stabile della Toscana.

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