Lehman Trilogy, recensione dello spettacolo di Luca Ronconi

La recensione dello spettacolo Lehman Trilogy, scritto da Stefano Massini, diretto da Luca Ronconi. La pièce è in scena fino al 15 marzo al Piccolo Teatro (al Grassi) di Milano e sarà ripresa a maggio (dal 12 al 31 maggio), in concomitanza con l’Expo, in omaggio a Luca Ronconi.

Lehman Trilogy: si entra in sala a sipario già aperto… la scena “invade” lo spazio della platea, rompe le linee di “demarcazione” solite, quasi a voler creare una maggiore continuità tra quel palco e lo spazio che il pubblico si appresta a riempire. Tutti – attori, tecnici e spettatori – sono pronti per il rito. A dare il via è Henry Lehman (Massimo De Francovich): porta una valigia di cartone, sale in piedi su una panchina e guarda dritto davanti a sé mentre racconta, in bilico tra un tempo evocativo e il “come se fosse nell’hic et nunc del momento” in un «meccanismo di narrazione che per rispettare il testo obbligherà l’attore a recitare (e recitarsi) continuamente diviso fra prima e terza persona», si legge nella prefazione di Luca Ronconi all’edizione Einaudi.

©Marasco
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Lehman Trilogy di Stefano Massini è uno spettacolo in cui diventa quasi riduttivo il termine “spettacolo”, è un atto di creazione che pulsa di energia viva pur affrontando la morte (e non solo). Non possiamo negare che, con la scomparsa lo scorso 22 febbraio del regista Luca Ronconi, questa rappresentazione ha assunto ulteriore valore, un lascito che si rinnova a ogni replica vivendo nei corpi, nei volti, nella voce e nel cuore degli attori che continuano a calcare quelle tavole perché, sottolinea De Francovich a nome di tutta la compagnia, è «l’unico modo per ringraziarlo di tutto quello che ci ha dato qui e negli anni precedenti». È da questa testimonianza attiva che si riparte portando in scena, o integralmente o in due serate separate, la trilogia dei Lehman – Ronconi ha accorpato i tre capitoli originari – tre fratelli, padri e figli, l’immortale – dando vita a due parti autonome.

©Marasco
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Da una prima lettura del titolo si potrebbe pensare che questo spettacolo abbia un taglio d’inchiesta o sia focalizzato sull’indagare il crollo della Lehman Brothers. Ma se fosse una mera questione di banche, per come ce le propinano i mass media, non si tratterebbe di un’opera di questa portata e non interesserebbe la maggior parte di noi né il teatro. Il drammaturgo toscano ripercorre i 160 anni, dall’«Oro del Reno di un’Alabama negriera al Crepuscolo dei divini indici di Wall Street» (dalla citata prefazione), costruendo una partitura particolare, tra letteratura e teatro, dove la parola sgorga per poi essere canalizzata da ciascun interprete, ognuno secondo le proprie corde, ma con una geometria comune e un disegno registico inconfondibile.

Il gigantesco orologio di ferro e ghisa sulla torre del porto di New York segna le 7.25 quando Henry Lehman mette piede nella tanto agognata America; originario di Rimpar (in Baviera), figlio di un mercante di bestiame, ebreo circonciso, investe tutto se stesso dietro quel bancone e tutto comincia con abiti e stoffe. In una scena raffinata e funzionale, il più grande dei fratelli ci descrive quel suo primo negozio… sembrerà forse scontato, ma non sempre l’effetto è questo, qui, invece, si realizza: è come se stessimo leggendo noi quelle parole e poi arriva l’artista, il quale col tono, le intenzioni e la gestualità, in un sogno di visione, ci fa visualizzare tutto – a dimostrazione che spesso non sono necessari tanti oggetti per far un salto nel tempo, nei luoghi e nelle vite degli altri, pronte a mescolarsi con le nostre. Questo e tanto altro è ciò che accade in Lehman Trilogy.

©Marasco
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A distanza di qualche anno, Emanuel (Fabrizio Gifuni) e Mayer (Massimo Popolizio) raggiungono il fratello maggiore ponendo la pietra per la scritta gialla su fondo nero: “Lehman Brothers”. I tre, rispettivamente «un braccio, una patata e una testa», si lanciano in un viaggio che parte da Sud, a Montgomery in Alabama, la loro “merce” muta a seconda delle intuizioni lungimiranti e anche dell’assunzione del rischio… ed è così che da negozianti diventano mediatori. Ronconi ha sottolineato più volte l’importanza della parola «mediazione» nella presentazione alla stampa del 27 gennaio 2015. Assistendo alla rappresentazione viene posto l’accento su questo termine, che viene declinato non solo per il ruolo socio-economico che i Lehman stavano assumendo; mediatore era anche Mayer in famiglia, quando doveva intervenire tra la testa e la mente, senza contare le volte in cui – giocando con le parole – i Lehman si son trovati «in mezzo» alle situazioni (ad esempio l’atteggiamento diverso di Emanuel e Mayer nella guerra tra Nord e Sud).

©Marasco
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Questa non ci appare la sede più consona per riassumere i lunghi anni che i Lehman hanno solcato, conquistando New York, attraversando la guerra di secessione, le guerre mondiali e, tra queste ultime, s’insinuò la crisi del ’29. Di generazione in generazione la dinastia sopravvive e il potere cresce tanto da essere molto rilevante nella ripresa post ’29. Nonostante l’andamento col segno +, tutto è percorso, profondamente e man mano che avviene il passaggio di testimone, da un precario equilibrio che può essere messo a dura prova dagli eventi così come dal mutamento dell’essere umano. Solomon Paprinskij (Fabrizio Falco) attraversa il cavo che percorre la scena da un capo all’altro: è il funambolo che si esercita di fronte a Wall Street (un ottimo personaggio simbolico ideato da Massini), ma possiamo ben immaginare cosa stia a significare. Non si tratta solo di voler evocare l’oscillazione delle borse, ma quell’immagine ci fa accedere a varie letture e, su tutte, ci suggerisce quanto la nostra stessa vita “balli” sul filo del rasoio e il più delle volte non ci sia una rete che possa attutire la caduta.

Da coloro che erano ripartiti dal cotone grezzo dopo un devastante incendio e che avevano la necessità di toccare con mano, la palla è passata a Philip (Paolo Pierobon) figlio di Emanuel e infine a suo figlio Robert, detto Bobbie (Fausto Cabra), tra loro, nella “lotta” alla conservazione del potere, Herbert (Roberto Zibetti), figlio di Mayer. Parliamo di lotta perché il seme viene instillato da quel reiterato «non sono d’accordo» di Herbert, che minaccia il sogno di gloria di Bobbie di sentirsi dire: «grazie, mister Lehman!» con la condizione che ne esista solo uno, lui. Ed è qui che si rivela un altro snodo: il senso religioso di cui i patriarchi erano così imbevuti cede il passo al culto del dio denaro, è un cambiamento che si verifica nel tempo, a far da ponte è Philip, mosso dalla voglia di controllare tutto e dall’idea che con la tecnica si pesca e gioca la carta vincente.

©Luigi Laselva
©Luigi Laselva

 

Non vogliamo svelarvi altro perché, per quanto la fine di questa storia sia già nota a tutti e, anzi, probabilmente la Lehman è venuta alla ribalta al grande pubblico proprio per quella fine, la strada scelta da Massini la rende appetibile e a completare il tutto ci pensa il lavoro certosino di Ronconi con l’eccellente cast – e anche in questo caso, qualsiasi aggettivo per definire ogni attore appare “piccolo”… solo vedendoli recitare si può comprendere la caratura di ogni componente. Sono loro che con i corpi creano diagonali e linee anche solo con la propria fisicità, ma senza mai cadere in un effetto “finto” – molto significativa è la posizione che assume Gifuni in una scena della seconda parte: è come se, dopo il suo intervento, il corpo si abbandonasse (in particolare le braccia) proprio come avviene alle marionette quando vengono appoggiate dopo l’utilizzo.

La scena di Marco Rossi rispecchia quest’ambiguità di tempo, li e ci sospende, con un piano leggermente inclinato che si somma a tutti gli altri rimandi legati all’equilibrio. Non mancano le riconoscibili entrate in scena dal taglio ronconiano, ma nulla ha il sapore di artefatto, «non c’è nessun fronzolo, nessuna civitteria, c’è quello che ci deve essere» ha puntualizzato il regista in conferenza.

Così come spesso accade per lo spettatore in teatro, i fratelli Lehman dovevano immaginare per creare il proprio impero e, a ogni colpo storico e perdita, dopo lo shivà (il lutto), la sete di potere si riaffacciava soprattutto tra gli ultimi nati, fino a…

Lehman Trilogy pone in campo i membri della dinastia Lehman di padre in figlio, senza che si scada nell’etichetta del buono o cattivo, sono uomini che hanno guardato ai loro fratelli provando sentimenti talvolta contrastanti, si son relazionati coi figli decidendo di lasciargli il posto oppure eran questi a prenderselo, uomini che hanno paura e vi fanno i conti nel sonno, ma sanno anche sognare. Il tutto assolutamente bilanciato e declinato con registri che si compenetrano. In Lehman Trilogy c’è spazio anche per il divertimento, merito del sottile humor che gli attori sanno cavalcare nella trama di situazioni e nel tessuto linguistico, costituito anche da epiteti e dal rincorrersi di suoni in alcune parole, in una musicalità singolare che dà vita a questo teatro di parola.

Non basta questo spazio per provare a rendervi l’idea di questo spettacolo e delle emozioni che restituisce, possiamo solo augurarvi di poterne fare esperienza. Vedere, ai saluti, De Francovich che esce prendendo per mano Fausto Cabra, uno dei più giovani della compagnia (ma già con tanta gavetta alle spalle) suggella ciò che Ronconi ha fatto in quest’occasione: riunire le generazioni dei suoi attori a cui si è aggiunto Fabrizio Gifuni, con cui desiderava lavorare, e porli in connessione.

 

 

Maria Lucia Tangorra

Milano, Piccolo Teatro

“Lehman Trilogy” di Stefano Massini

Regia di Luca Ronconi

Con (in ordine di apparizione) Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Martin Ilunga Chishimba, Paolo Pierobon, Fabrizio Falco, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti, Laila Maria Fernandez

Scene Marco Rossi

Costumi Gianluca Sbicca

Luci A.J.Weissbard

 

 

Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

 

Si ringrazia l’ufficio stampa del Piccolo Teatro, nella persona di Valentina Cravino

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