Le origini della guerra arabo-israeliana

Theodor Herzl
Theodor Herzl, uno dei sionisti di maggiore importanza

In questi giorni il conflitto in Medio Oriente si è riacceso, divampando come un fuoco mai del tutto domato, che cova sotto la cenere nonostante i ripetuti sforzi e i tentativi diplomatici di dialogo e pace. Riassumere in un solo articolo tutte le fasi della guerra arabo-israeliana è impossibile, però si può iniziare a comprendere quale sia l’origine di questo conflitto, tornando indietro nel tempo fino agli ultimi anni dell’Ottocento.

Le teorie di Theodor Herzl, uno dei sionisti di maggior importanza (la pubblicazione della sua opera “Lo Stato Ebraico” nel 1896), furono solo i primi passi per l’elaborazione e la concezione di una nazione ebraica. Herzl non pensò subito alla Palestina come sede per questo nuovo Stato, benché essa figurasse tra le opzioni più probabili. Nel 1897 convocò il primo Congresso sionista da cui nacque l’Organizzazione sionista mondiale e venne redatto il “Programma di Basilea” in cui la Palestina divenne, di fatto, l’unica possibilità per costruire una casa per gli ebrei. Gli eventi storici, inoltre, resero la colonizzazione della zona ancora più rapida: tra il 1882 e la Seconda Guerra Mondiale ci furono cinque aliyot (singolare aliyah, che in ebraico, letteralmente, vuol dire “ascesa”, cioè una sorta di rinascita in una nuova terra per gli ebrei della diaspora), ovvero ondate migratorie. La prima aliyah avvenne a causa dei pogrom in Russia, subito dopo la morte dello zar Alessandro II e le persecuzioni naziste, alla vigilia e durante il Secondo Conflitto Mondiale spinsero migliaia di ebrei a rifugiarsi anche in Palestina. Durante questi flussi migratori la comunità ebraica nascente poté costruire solide basi sociali, politiche, religiose, linguistiche ed economiche, su cui, nel 1948, sarebbe sorto lo Stato d’Israele.

La Prima Guerra Mondiale aveva portato al disgregamento l’Impero Ottomano ormai al tramonto e le grandi potenze mondiali, Inghilterra e Francia le più importanti, si spartirono i resti, ovvero i territori, di quello che è stato definito “il gigante dai piedi d’argilla”. Fu, questa, un’epoca di accordi ufficiali e, contemporaneamente, segreti, di giochi di potere e diplomatici condotti con grande abilità soprattutto dagli inglesi.

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La Storia ricorda due tappe importanti a tal proposito: L’Accordo Sykes-Picot (1916) e la Dichiarazione Balfour (1917). L’Accordo Sykes-Picot prevedeva che l’Inghilterra esercitasse il controllo sulle zone che oggi appartengono allo Stato giordano, Haifa e Iraq, mentre alla Francia venne riconosciuta la supremazia su Siria, Libano, nord dell’Iraq e sud della Turchia. La Palestina doveva essere amministrata da entrambe le parti. Di fatto, però, questi accordi spianarono la strada per il mandato britannico (1922-1948) sulla Palestina stessa, deciso dalla Società delle Nazioni.

Nel 1917, infatti, la Dichiarazione Balfour rimise in discussione tutti gli accordi presi, poiché, citando il documento, si parlava di “…creazione in Palestina di un focolare nazionale del popolo ebraico”. Queste parole, fortemente ambigue come il resto della dichiarazione e della stessa politica inglese nei confronti della Palestina, non parlano di uno Stato vero e proprio, ma di un “focolare nazionale” (“national home”).

Questa espressione diede luogo a dibattiti politici, a incomprensioni, ma è probabile che l’Inghilterra sperasse di trarre vantaggio dall’insediamento ebraico in Palestina. Insomma, gli inglesi avevano promesso ai francesi che il territorio palestinese sarebbe stato controllato da entrambi, agli arabi che sarebbe passato nelle loro mani ma, di fatto, la Dichiarazione Balfour smentiva entrambe le soluzioni.

Il crescente nazionalismo palestinese, il malcontento del popolo arabo per una situazione già molto intricata e l’incertezza di un futuro di convivenza tra i due popoli portarono, nel 1935, allo scoppio della Grande Rivolta, che durò per ben tre lunghi, terribili anni. Proprio negli anni Trenta si creò il problema dei “senza terra”; moltissimi ebrei arrivarono in Palestina, il prezzo della terra salì vertiginosamente, gran parte dei proprietari terrieri, sperando in un guadagno immediato, decisero di vendere i loro appezzamenti al Fondo Nazionale Ebraico.

In questo modo e anche con lo scoppio della rivolta, i contadini arabi si ritrovarono senza terra (ricordiamo che i sionisti acquistarono anche attraverso degli usurai) e gli scioperi favorirono la comunità ebraica che rimpiazzò la manodopera che rifiutò di lavorare. La Guerra, le lotte tra due popoli, la povertà e l’impossibilità di difendere una delle due parti a scapito dell’altra portarono, nel 1947, all’intervento delle Nazioni Unite, dal momento che neppure la Gran Bretagna era riuscita a destreggiarsi (o, comunque, si era mossa in modo piuttosto ambiguo e cercando di sedare le rivolta araba con ogni mezzo) in una condizione così complicata. La Commissione Speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (Unscop), composta dalle delegazioni di undici Paesi, stabilì che la politica mandataria sulla Palestina dovesse terminare, il territorio suddiviso tra ebrei e arabi che, comunque, avrebbero dovuto intraprendere un sodalizio economico e Gerusalemme dovesse essere sottoposta a una amministrazione internazionale.

La Gran Bretagna, però, ritirò le truppe nel 1948, decretando la fine del mandato e nessuno, a quel punto, fece rispettare gli accordi. Da qui prese l’avvio la guerra sanguinosa e senza fine che tutti conosciamo. L’unico obiettivo, ormai, al di là del torto e della ragione, deve essere la ricerca della pace. Quanti ancora, ebrei, musulmani e cristiani dovranno morire?

Francesca Rossi

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