La gatta sul tetto che scotta e quella “felinità” mancata

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Partendo dal titolo originale “La gatta sul tetto che scotta”, ero indeciso se cominciare questa recensione con un gioco di parole come “la gatta sul tetto tiepido” oppure con “il fantasma sul tetto che scotta”, dove il fantasma è il ricordo di altre gatte (come Elizabeth Taylor, Lea Padovani, Carla Gravina, Kathleen Turner o Scarlett Johansson, citandone all’incirca una per decennio), che hanno sfoderato gli artigli in questo capolavoro scritto da Tennessee Williams nel lontano 1954. Ma l’uno o l’altro in qualche modo rispecchiano in egual misura la sensazione che l’allestimento di Arturo Cirillo con la coppia PucciniMarchioni mi ha trasmesso. Il testo è ancora potente e straordinariamente attuale, possiede inalterata la stessa forza dirompente che aveva cinquantadue anni fa. Purtroppo però la regia si è concentrata molto più sulla vicenda che sui personaggi: su quanto accade nel matrimonio di Maggie e di Brick, sulle dinamiche della famiglia Pollitt alle prese con la malattia del patriarca, sugli squallidi mezzi usati per accaparrarsi un patrimonio, su indicibili verità nascoste e poi messe a nudo dagli eventi. L’effetto finale è pertanto quello di un lavoro educato che però indaga con poca profondità il senso dell’opera, preferendo navigare in acque placide e sicure. Quello che dovrebbe colpire vedendo rappresentato questo dramma è la sua ineluttabilità che nasce dallo scontro di diverse anime, di diversi caratteri legati da vincoli personali e familiari. E dovrebbe essere l’insieme composito dell’umanità (in entrambe le accezioni del termine) rappresentata dai personaggi a portare fatalmente verso l’unico epilogo possibile. Qui il percorso è stato invece inverso. La sensazione è che nel testo succedano delle cose e di conseguenza, per raccontare queste, vengono date motivazioni agli attori che fanno quel che possono, ognuno in base al proprio rispettivo “mestiere”. La differenza è di non poco conto.

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Per quanto riguarda gli interpreti sarebbe sbagliato e ingeneroso paragonare Vittoria Puccini alla sua prima esperienza sul palco alla Taylor o una qualunque delle altre attrici di formazione teatrale citate prima: la sua performance merita di essere valutata senza inutili confronti. Puccini è dunque una donna di oggi sicuramente molto bella, bella al punto da poter sembrare la gatta. Quello che però non possiede è la felinità. Una felinità (o un certo tipo di femminilità) istintiva, feroce, scaltra, quella di una piccola pantera da appartamento che seduce, graffia, si affeziona soltanto perché quel suo voler bene a qualcun altro è funzionale ai suoi bisogni. Una felinità la cui presenza ha reso memorabili altre interpretazioni. Il fascino che Puccini regala a Maggie invece, grazie al suo aspetto algido e a una sensualità costruita a tavolino – per imitare quella richiesta – con una capacità più cinematografica che teatrale, è tutto cerebrale, ed è un po’ come se si fosse tolta da “La gatta sul tetto che scotta” la gatta, almeno come l’aveva immaginata Williams.

La gatta LOCANDINA Ott 15

Decisamente più riuscita la scelta di Vinicio Marchioni chiamato ad interpretare Brick. Marchioni pare a suo agio nei panni di questo fragile ragazzone ex-sportivo, diventato alcolista perché schiacciato tra un matrimonio senza amore con Maggie e il ricordo (forse il rimpianto) per la relazione “bromance” (una storia romantica ma platonica) con un amico morto suicida perché segretamente innamorato di lui. Presente al ruolo (suggestivo lo scambio con il padre in cui -quasi- tutte le verità vengono finalmente messe in piazza) riesce a ritagliarsi piccoli gesti, intelligenti controscene con cui regala profondità all’uomo Brick e non al personaggio. Più di contorno e “di maniera” invece l’impegno richiesto agli altri attori in locandina, sacrificati in un recitare enfatico ma bidimensionale, per un risultato pulito ma non completamente avvincente o convincente. Il sospetto è che il titolo sia stato scelto più come veicolo per la star Puccini che come continuazione del percorso di approfondimento del teatro moderno americano iniziato dall’ottimo regista napoletano con Lo Zoo di Vetro e continuato con Chi ha paura di Virginia Woolf?, entrambi diretti con ben altra intensità. Il che, va da sé, è un peccato. Discorso a parte meritano le scene e i costumi, attraverso i quali il sottotesto de “La gatta sul tetto che scotta” viene esplicitato grazie ad un progetto cromatico molto interessante, con una scenografia in cui una uniforme tonalità verde petrolio permette a sprazzi di colore (accessori, abiti, piccoli accenti) di accendersi agli occhi degli spettatori con un effetto drammatico, come se -appunto- la verità premesse per sbocciare, fiore affascinante e pericoloso. Peccato solo che l’aver poi rarefatto il tutto con forme volutamente essenziali finisca per enfatizzare il senso minimalista, astratto e moderno che in qualche modo amplifica lo scollamento del risultato dalle intenzioni dell’autore. Lo spettacolo è in scena a Milano al Teatro Manzoni fino al 28 febbraio 2016.

 

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