IL PAESE DELLE IM-PARI OPPORTUNITA`

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Presentato il rapporto sulla coesione sociale  dall’Inps, dall’Istat e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Anche quest’anno il rapporto è articolato in due volumi e si prefigge l’obiettivo di fornire, in modo particolare ai policy maker, alcune importanti indicazioni per conoscere le situazioni economiche e sociali sulle quali intervenire per migliorare le condizioni di vita delle persone. Dal rapporto ciò che risulta evidente, oltre ai problemi legati alla disoccupazione, è una disparità lavorativa di genere e di razza: la retribuzione mensile netta è di 1.300 euro per i lavoratori italiani e di 986 euro per gli stranieri. In media gli uomini italiani percepiscono una retribuzione più elevata (1.425 euro) rispetto alle italiane (1.143 euro); il divario retributivo di genere è più accentuato per la popolazione straniera, con gli uomini che percepiscono in media 1.134 euro e le donne soltanto 804 euro. Ma entriamo nel vivo del rapporto, andando a conoscerlo nei dettagli.

LA SITUAZIONE PAESE

Quadro socio-demografico e proiezioni

Nel 2011 sono stati iscritti in anagrafe quasi 547mila nati. Più di un bambino su quattro (26,6%) è nato al di fuori del matrimonio, più del doppio rispetto a dieci anni prima. Ogni 100 nati iscritti in Anagrafe nel 2010, 19 hanno almeno un genitore straniero; di questi, 14 hanno i genitori entrambi stranieri. Il numero medio di figli per donna si attesta a 1,41, raggiunge 2,11 per le donne straniere e scende a 1,32 per quelle italiane.

Ci si sposa di meno e sempre più tardi. In Italia sono stati celebrati quasi 218mila matrimoni (anno 2010), 13mila in meno rispetto all’anno precedente, a conferma del trend discendente iniziato a metà degli anni Settanta. L’età media al primo matrimonio è di 33,4 anni per gli uomini e di 30,4 anni per le donne, con uno spostamento in avanti di più di sei anni rispetto al 1980. Crescono i matrimoni celebrati con rito civile: sono ormai più di un terzo del totale (36,5%), quasi triplicati rispetto al 1980.

Nel 2010 le separazioni legali sono state circa 88mila (+2,6% rispetto a un anno prima) e i divorzi 54 mila (-0,5%). Continua ad aumentare anche l’aspettativa di vita della popolazione italiana, pari a 79,4 anni per gli uomini e a 84,5 per le donne, con un guadagno rispettivamente di circa nove e sette anni in confronto a trent’anni prima. Il trend è crescente anche per le persone in età avanzata: un uomo di 65 anni può aspettarsi di vivere altri 18,4 anni e una donna altri 21,9 anni, un ottantenne altri 8,3 e una ottantenne 10,1 anni. A livello territoriale, l’area del Paese più longeva è quella del Centro Nord. I bassi livelli di fecondità, congiuntamente al notevole aumento della sopravvivenza, rendono l’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo. Al primo gennaio 2011 si registrano 144,5 anziani ogni 100 giovani, a metà degli anni Novanta erano 112. E’ un trend destinato a crescere: secondo le previsioni, nel 2050 ci saranno 263 anziani ogni 100 giovani.

Cresce anche l’indice di dipendenza, misurato dal rapporto percentuale fra la popolazione in età non attiva (0-14 anni e 65 e più) e quella in età attiva (15-64 anni), che passa dal 45,5% del 1995 al 52,3 del 2011. Nel 2050 si prevede che sarà pari a 84.

Mercato del lavoro

Nel secondo trimestre 2012 gli occupati sono 23milioni 46mila, in calo dello 0,2% in confronto allo stesso trimestre del 2011 (-48 mila unità). La diminuzione riguarda esclusivamente la componente maschile. Il tasso di occupazione (15-64 anni), dopo la flessione del precedente trimestre, segnala un moderato calo tendenziale (-0,1 punti percentuali), attestandosi al 57,1%.

Sempre nel secondo trimestre 2012, il numero dei disoccupati è pari a 2 milioni 705 mila unità, con un aumento tendenziale su base annua del 38,9% (+758 mila unità). Il tasso di disoccupazione è al 10,5% (+2,7 punti percentuali rispetto al secondo trimestre 2011), quello giovanile (15-24 anni) si attesta invece al 33,9%, raggiungendo il 48% se riferito alle giovani donne del Mezzogiorno. Diminuisce la popolazione che non cerca lavoro né è disponibile a lavorare. Il tasso di inattività si porta al 36,1%, in calo di 1,8 punti percentuali rispetto a un anno prima.

Nel 2010, gli occupati a tempo determinato sono 2milioni 303mila, il 13,4% dei lavoratori dipendenti. Si tratta in gran parte di giovani e donne. Gli occupati part-time sono invece 3milioni 551mila, il 15,5% dell’occupazione complessiva. In quest’ultimo caso prevale nettamente la componente femminile.

Sempre nel 2011, la retribuzione mensile netta è di 1.300 euro per i lavoratori italiani e di 986 euro per gli stranieri. In media gli uomini italiani percepiscono una retribuzione più elevata (1.425 euro) rispetto alle italiane (1.143 euro); il divario retributivo di genere è più accentuato per la popolazione straniera, con gli uomini che percepiscono in media 1.134 euro e le donne soltanto 804 euro.

Nel 2010 rispetto all’anno precedente si rileva una leggera flessione del differenziale salariale donna/uomo dal 5,5% al 5,3%

Occupati contribuenti Inps

 Il “pianeta” del lavoro dipendente conta nel 2012 (media primo semestre) 12milioni 288mila occupati (anche agricoli e domestici), circa 165mila in meno rispetto all’anno precedente (-1,3%). Il decremento riguarda tutto il Paese (con l’unica eccezione della Valle d’Aosta) ed è particolarmente accentuato nelle Isole (-4,5%), nel Centro e nel Sud (-1,7%). Nord Ovest (-0,5%) e Nord Est (-1%) presentano un calo minore. In particolare in Lombardia, dove si concentra il maggior numero di lavoratori dipendenti – in media 2milioni 738mila, pari al 22,3% del totale – si osserva la riduzione più contenuta (-0,2%). Un calo più marcato si registra in Sicilia (-4,6%) che nel 2012 assomma 604mila lavoratori dipendenti, pari al 4,9% del totale. Negli ultimi quattro anni (2009-2012) si è assottigliata la quota di lavoratori dipendenti under30, dal 19,7% al 16,9% mentre nell’ultimo anno il loro numero si è ridotto dell’8,7%. Aumenta il peso relativo della quota femminile, dal 40,6% del 2009 al 41,5% del 2012. Nell’ultimo anno è in lieve aumento il numero di dipendenti quadri (+1%) e dirigenti (+0,5%) mentre diminuisce quello degli apprendisti (-4,7%), degli operai (-2,2%) e degli impiegati (-0,3%) (dati 1° semestre 2012). Sono 10milioni 492mila i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato, in calo rispetto all’anno precedente (-0,7%). Si riduce soprattutto il numero dei lavoratori sotto i 30 anni (-8%) mentre aumenta quello degli over 30 (+0,7%). Le donne con un lavoro standard sono oltre 4milioni 206mila, in crescita dello 0,4% rispetto al 2011, mentre i colleghi maschi (6 milioni 286mila) presentano una flessione dell’1,5%. I lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato fanno registrare un deciso decremento nell’ultimo anno (-4,1%), particolarmente marcato nelle Isole (-10,9%) e nel Centro (-5,3%). Il lavoro a tempo parziale riguarda in prevalenza l’universo femminile: nelle forme tipiche di part time, orizzontale verticale e misto, le donne rappresentano, nel 2012, rispettivamente il 73,4%, il 69,6% e il 76,2% dei lavoratori con contratto a orario ridotto. Nel 2011, sono un milione 854mila gli Artigiani iscritti alla gestione speciale dell’Inps: circa 5mila in meno dell’anno precedente (-0,3%).

Il 31,6% di essi ha svolto l’attività nel Nord Ovest, il 24,9% nel Nord Est, il 20,6% nelle regioni del Centro; il 15,3% è attivo al Sud, il rimanente 7,7% nelle Isole. E’ titolare di azienda il 91,7% degli Artigiani, il rimanente 8,3% è costituito da collaboratori familiari. La componente maschile è assolutamente dominante (81%), mentre dal profilo per età emerge che un terzo degli artigiani si colloca nella fascia di età 40-49 anni. Complessivamente la classe più numerosa è quella dei 30-59enni in cui si colloca circa l’80% degli artigiani, mentre gli under30 sono appena il 7,3% e gli ultrasessantenni il 12,8%. I Commercianti iscritti alla gestione speciale dell’Inps sono due milioni 141mila, l’1,5% in più del 2010. Il 27,4% ha localizzato la propria attività commerciale nel Nord Ovest, il 20,6% nel Nord Est, il 20,7% nelle regioni del Centro, mentre nel Sud e nelle Isole sono attivi rispettivamente il 21,9% e il 9,3%. La componente femminile è pari al 36,4%. Nella stragrande maggioranza dei casi (89,3%) i commercianti iscritti alla gestione sono titolari di azienda, il 10,7% è collaboratore familiare. Nel 2011, i Coltivatori diretti, coloni e mezzadri e imprenditori agricoli professionali dell’Inps ammontano a 464mila unità, in calo dell’1,1% rispetto al 2010. Sul territorio la percentuale più alta di lavoratori agricoli, l’11,4%, si registra in Piemonte. Quanto al genere, la quota maschile prevale nettamente, 63,9% contro 36,1% delle donne. I contribuenti Parasubordinati (con almeno un versamento nell’anno) sono 1,7 milioni, dei quali 1,5 milioni (87%) collaboratori e quasi 220mila (13%) professionisti. Ancora una volta la componente maschile è preponderante (58,4%, pari a circa 984 mila) su quella femminile (41,6%, circa 700 mila). Rispetto all’anno precedente, il numero dei collaboratori fa registrare un lieve aumento (+1,4%) mentre risulta in decisa diminuzione quello dei professionisti (-17%). I lavoratori parasubordinati si concentrano nelle regioni del Nord (54,7%) e, in misura molto più contenuta, al Centro (26,1%), al Sud (12,9%) e nelle Isole (6,4%). L’età media dei collaboratori si attesta su 42,3 anni (45,2 anni per i maschi e 38,4 anni per le femmine).

Retribuzioni contribuenti Inps

Nel 2011, la retribuzione media giornaliera dei lavoratori dipendenti (esclusi i domestici) con almeno una giornata retribuita nell’anno è di 85,80 euro, in aumento di circa l’1,7% rispetto al 2010. A livello territoriale (estero a parte), è nel Nord-ovest che si registra il livello più alto di retribuzione media giornaliera, pari a 93,9 euro, con il picco di 97,20 euro della Lombardia. I valori più bassi sono invece quelli delle Isole (71,90 euro) e del Sud (73,20 euro) con la Calabria fanalino di coda (68,7 euro). Le retribuzioni medie giornaliere risultano molto più differenziate in base all’età dei lavoratori. I valori sono inferiori ai 60 euro al giorno per i dipendenti sotto i 20 anni (45,30 euro) e per quelli 20-24enni (55,30 euro), mentre superano i 100 euro giornalieri per i 50-54enni (102,60 euro) e per i lavoratori fra i 55 e i 59 anni (109,20 euro). Come è facile prevedere, la retribuzione dipende molto dalla qualifica lavorativa (escludendo quelle dirigenziali e particolari); gli apprendisti guadagnano in media 52,40 euro al giorno, gli operai 68,80 euro, gli impiegati 90,90 euro, i quadri raggiungono quota 196,40 euro. Il divario di genere è piuttosto accentuato, con retribuzioni medie giornaliere per gli uomini pari, nel 2011, a 96,90 euro, contro i 69,50 euro di quelle corrisposte alle donne.

Capitale umano

Negli ultimi anni, l’università fatica ad attrarre i giovani. Il tasso di passaggio (rapporto percentuale tra immatricolati all’università e diplomati di scuola secondaria superiore dell’anno scolastico precedente), che era andato gradualmente aumentando con l’avvio della Riforma dei cicli accademici, fino a sfiorare quota 73% nell’anno accademico 2003/2004, si è progressivamente ridotto per attestarsi al 61,3% nel 2010/2011.

Nel 2011, lavora il 71,5% dei giovani che hanno conseguito la laurea nel 2007 (erano il 73,2% fra i laureati del 2004 intervistati nel 2007) Fra le lauree triennali, i migliori esiti occupazionali si riscontrano per i corsi afferenti alle professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche (con circa il 95% di occupati); fra le lauree specialistiche biennali, livelli di occupazione elevati si registrano invece per i corsi di ingegneria, di architettura e delle scienze economico-aziendali.

Tra i laureati del 2007 intervistati nel 2011 le situazioni più difficili sono quelle relative ai “dottori” dei gruppi geo-biologico e letterario. Particolari criticità si evidenziano per i laureati che al momento dell’intervista vivono abitualmente nel Mezzogiorno e per le donne. In particolare, lo svantaggio femminile si riscontra per tutte le tipologie di corsi di laurea, con un differenziale nei tassi di disoccupazione maschili e femminili di circa 8 punti.

Conciliazione tempo di lavoro e cura della famiglia

Maternità

Nel 2011, i lavoratori dipendenti beneficiari di maternità obbligatoria sono circa 380mila. Fra le neo-mamme, il 91% ha un contratto a tempo indeterminato (e vive al Nord nel 57% dei casi), il 9% a tempo determinato (di cui il 50% concentrato nel Sud e Isole). Nel 2011 ammontano a circa 296mila i lavoratori dipendenti che hanno usufruito di congedi parentali (astensione facoltativa). Di questi, il 93,6% ha un contratto a tempo indeterminato (nel Nord si concentra il 65% dei congedi parentali con contratti a tempo indeterminato). Fra i lavoratori che hanno goduto dei congedi parentali pur non avendo il posto fisso (6,4%), quasi i tre quarti (74%) sono concentrati al Sud e nelle Isole. I congedi parentali sono ancora poco utilizzati dai padri, ne ha usufruito appena l’11% dei lavoratori dipendenti. Permessi L. 104/1992 e prolungamento dei congedi parentali e congedi straordinari

Nel 2011 sono complessivamente 328 mila i beneficiari di prestazioni per lavoratori con handicap o per l’assistenza di persone con handicap nel settore privato, di cui il 51% maschi e il restante 49% femmine. Il 78% dei beneficiari usufruisce di permessi per familiari, il 12% di permessi personali e il restante 10% del prolungamento del congedo parentale o del congedo straordinario.

Salute

Malattia dei lavoratori dipendenti

Nel 2011 sono stati trasmessi circa 11milioni 714 mila certificati di malattia per il settore privato e 4 milioni 705 mila per la pubblica amministrazione. Nella distribuzione regionale del numero dei certificati di malattia trasmessi, la Lombardia è al primo posto per il settore privato, il Lazio e la Sicilia per il comparto della pubblica amministrazione.

La durata media di malattia è pari a 9 giorni per evento nel settore privato e a 7 giorni nella pubblica amministrazione. Nel Nord-Ovest si registra il numero più alto di eventi e giornate di malattia per il settore privato, mentre per quello pubblico il valore più alto si riscontra nel Sud.

Tra i due comparti diversa è anche la distribuzione per genere con il 57% dei maschi nel settore privato contro il 31% nella pubblica amministrazione.

Povertà

Povertà deprivazione ed esclusione sociale

Nel 2011, le famiglie in condizione di povertà relativa sono in Italia 2 milioni 782 mila (l’11,1% delle famiglie residenti) corrispondenti a 8 milioni 173 mila individui poveri, il 13,6% dell’intera popolazione. Nel corso degli anni, la condizione di povertà è peggiorata per le famiglie numerose, con figli, soprattutto se minori, residenti nel Mezzogiorno e per le famiglie con membri aggregati, dove convivono più generazioni.

Nel 2011, l’incidenza della povertà relativa è pari al 27,8% fra i minorenni se questi vivono con i genitori e almeno due fratelli (10,1% se si fa riferimento alla povertà assoluta), mentre è pari al 32% (18,2% nel caso della povertà assoluta) se vivono in famiglie con membri aggregati. La povertà relativa mostra alcuni segnali di miglioramento fra gli anziani; tuttavia, una vulnerabilità in termini economici permane soprattutto nel Mezzogiorno, dove risulta relativamente povero il 24,9% degli anziani (7,4% quelli assolutamente poveri).

L’indicatore sintetico “Europa 2020”, che considera le persone che sono a rischio di povertà o di esclusione sociale, è cresciuto per l’Italia dal 26,3% del 2010 al 29,9% del 2011, un livello significativamente superiore alla media europea. La variazione negativa di 3,3 punti percentuali è la più elevata registrata nei Paesi compresi europei.

Nel 2010, in Italia è materialmente deprivato il 25,8% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno, (contro il 15,7 della media nazionale), valore che raggiunge il 30% in Sicilia e in Campania.

Segnali di peggioramento si osservano per le famiglie che non si possono permettere di riscaldare adeguatamente l’abitazione (che passano dal 10,6% del 2009 all’11,5%) e per quelle che arrivano con molta difficoltà alla fine del mese (dal 15,3 al 16%). Risultano invece sostanzialmente stabili le quote di famiglie che non si possono permettere una settimana di ferie lontano da casa almeno una volta all’anno e non possono far fronte a una spesa imprevista con mezzi propri.

Nel Mezzogiorno il rischio di povertà o di esclusione sociale supera la media nazionale di circa 15 punti percentuali (39,5% contro 24,6%) ed è più del doppio rispetto al valore del Nord (15,1%); inoltre è maggiore fra le famiglie con tre o più figli (37,1%) e fra quelle monogenitore (35,7%).

Persone senza dimora

Le persone senza dimora corrispondono a circa lo 0,2% della popolazione regolarmente iscritta presso i comuni considerati dall’indagine, va tuttavia precisato che questo collettivo include individui non iscritti in anagrafe o residenti in comuni diversi da quelli dove si trovano a gravitare. Sono senza dimora per lo più uomini (86,9%); la maggioranza di queste persone ha meno di 45 anni (57,9%), nei due terzi dei casi hanno conseguito al massimo la licenza media inferiore mentre il 72,9% dichiara di vivere solo. In quasi sei casi su dieci si tratta di stranieri (59,4%).

Più della metà delle persone senza dimora che usano servizi (58,5%) vive nel Nord, il 22,8% nel Centro e il 18,8% nel Mezzogiorno. La distribuzione delle persone senza dimora sul territorio della Penisola dipende essenzialmente dalla loro concentrazione nei grandi centri: infatti Milano e Roma accolgono il 71% delle persone stimate dalla rilevazione campionaria.

Gli stranieri sono più giovani degli italiani, 36,9 anni contro 49,9, e in media più istruiti. Il 43,1% degli stranieri ha almeno un diploma di scuola media superiore contro il 23,1% degli italiani.

Nel complesso, la durata media nella condizione di senza dimora è di 2,5 anni. Prima di diventare senza dimora, il 63,9% viveva nella propria casa mentre il 7,5% ha dichiarato di non averne mai avuta una.

Le persone senza dimora che non svolgono alcuna attività lavorativa sono il 71,7%. Fra quelle che lavorano, il 24,5% ha un’occupazione a termine, poco sicura o saltuaria. In media, le persone che hanno un lavoro lo svolgono per 13 giorni al mese e il denaro guadagnato ammonta a 347 euro mensili.

La perdita di un lavoro si configura come uno degli eventi più rilevanti del percorso che conduce alla condizione di “senza dimora”, insieme alla separazione dal coniuge e/o dai figli e, con un peso più contenuto, alle cattive condizioni di salute. Il 61,9% delle persone senza dimora ha perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e/o dai figli mentre il 16,2% ha dichiarato di stare male o molto male. Sono invece una minoranza coloro che non hanno vissuto questi eventi o che ne hanno vissuto uno solo, a conferma del fatto che l’essere senza dimora è il risultato di un processo multifattoriale.

Nei 12 mesi precedenti l’intervista, l’89,4% delle persone senza dimora ha utilizzato almeno un servizio di mensa, il 71,2% ha usufruito dell’accoglienza notturna, il 63,1% di un servizio di docce e igiene personale. Quasi la metà (45%) delle persone senza dimora ha utilizzato i servizi per l’impiego. Più diffuso tra gli italiani è il ricorso ai servizi sociali (53,7% contro il 30,3% degli stranieri) e a quelli sanitari (64,1% contro 48,2%).

Nel mese precedente l’intervista, il 61,3% delle persone senza dimora ha usufruito di un servizio di accoglienza notturna e il 24,4% di un servizio di accoglienza anche diurna; il 41% è stato costretto a dormire, almeno una volta, in un luogo pubblico all’aperto e il 26,7% in un luogo pubblico al chiuso; circa un quarto ha dormito in un veicolo, in una baracca o casa abbandonata. Gli stranieri, più degli italiani, sono costretti a dormire in luoghi pubblici (73,5 % contro 59,1%) o in alloggi di fortuna (48,7% contro 39,0%).

Redditi delle famiglie con stranieri

In tutte le classi di età, la quota di stranieri percettori di redditi da lavoro è più elevata di quella degli italiani (75,4% contro 66,3% tra i 15-64enni). In media, i redditi da lavoro rappresentano il 90,6% del reddito netto delle famiglie composte da soli stranieri e il 63,8% del reddito netto di quelle di soli italiani.

Tra gli italiani, i redditi da lavoro delle persone laureate sono del 75% più elevati di quelli delle persone con licenza elementare; tra gli stranieri lo stesso confronto dà luogo a una differenza dell’8%.

La metà delle famiglie con stranieri dispone al massimo di 1.206 euro mensili (corrispondente ad un valore mediano del reddito netto annuo di 14.469 euro); il reddito scende a 1.033 euro per le famiglie di soli stranieri e mentre le famiglie di soli italiani dispongono di 2.053 euro mensili.

Aggiungendo al reddito netto i fitti figurativi (per comparare le famiglie proprietarie dell’abitazione e quelle affittuarie) e calcolando il valore equivalente (per comparare famiglie di dimensione e composizione differenti), il reddito mediano delle famiglie con stranieri è circa il 56% di quello delle famiglie di soli italiani.

Le condizioni economiche migliorano all’aumentare del tempo trascorso dall’arrivo in Italia: se una famiglia di soli stranieri risiede in Italia da più di 12 anni il suo reddito è superiore del 40% a quello di una famiglia che vi risiede da meno di due anni.

L’indicatore sintetico di rischio di povertà o esclusione sociale raggiunge il 51% fra le persone che vivono in famiglie con almeno uno straniero e il 56,8% in quelle composte solamente da stranieri, contro valori del 38,3% nelle famiglie miste e del 23,4% nelle famiglie di soli italiani.

Mobilità sociale

La mobilità sociale si riferisce all’insieme dei cambiamenti di classe sociale delle figlie e dei figli rispetto ai genitori, nel passaggio da una generazione all’altra (mobilità intergenerazionale), oppure ai cambiamenti che avvengono nel corso della vita di un individuo (mobilità intragenerazionale). Di conseguenza il tasso di mobilità assoluta di un paese è dato dal rapporto tra gli individui che raggiungono posizioni diverse da quelle di origine (le proprie o quelle dei propri genitori) e la popolazione totale.

Nel 2009, il 62,6% degli occupati si trova in una classe sociale diversa da quella dei padri, un valore non diverso da quello del 1998. I tassi di mobilità assoluta più alti sono quelli delle donne (65,9% contro 60,6% degli uomini).

L’istruzione svolge un ruolo fondamentale nel favorire la mobilità; da un lato, è un importante fattore di promozione sociale, dall’altro risultano determinanti sia la classe di origine – perché condiziona la scelta del percorso di studi sin dall’inizio – sia il successo scolastico e sia – attraverso gli esiti del percorso formativo – le probabilità di occupazione e di carriera.

Gli occupati con un titolo di studio medio-alto mostrano un tasso relativamente più elevato di mobilità assoluta: il 66% tra quanti hanno un titolo secondario o universitario provengono da una classe sociale diversa.

A parità di classe di origine, un elevato titolo di studio del genitore favorisce la mobilità verso l’alto e tutela coloro che già partono da situazioni più vantaggiose. Infatti, fra i figli di operai urbani, hanno avuto maggiori probabilità di spostarsi verso la classe media impiegatizia quelli il cui genitore aveva un diploma superiore o un titolo universitario (37,3% rispetto al 30,8% dei figli di chi aveva studiato “al più fino alle medie”). Un basso livello di istruzione dei padri comporta una minore mobilità dei figli: rimane nella classe di origine il 45,0% dei figli di padri della classe operaia urbana con al più la licenza media.

Coloro che hanno genitori dirigenti, imprenditori o liberi professionisti rimangono più facilmente nella classe di partenza nei casi in cui il padre aveva un titolo di studio elevato (46,2% se con diploma o università, contro il 21,7% nel caso di istruzione non superiore alla scuola media).

L’Italia, pur avendo registrato un’alta mobilità assoluta, è un paese caratterizzato da una scarsa fluidità sociale. La classe sociale di origine influisce in misura rilevante sulla mobilità sociale, determinando rilevanti disuguaglianze nelle opportunità degli individui. Al netto degli effetti strutturali, tutte le classi (in particolare quelle poste agli estremi della scala sociale) tendono a trattenere al loro interno buona parte dei propri figli e i passaggi di classe sono tanto meno frequenti quanto più grande è la distanza sociale che le separa.

Il confronto tra la posizione occupazionale al primo lavoro e quella di destinazione al momento dell’intervista (mobilità intra generazionale), associato allo studio della mobilità fra generazioni diverse, consente di individuare cinque differenti percorsi di mobilità sociale. Il gruppo più numeroso, pari al 40,4% (in crescita sia rispetto al 36,4% del 2003 sia al 38,5% del 1998) è quello dei “mobili all’entrata nella vita attiva”, nel quale sono inclusi i figli che partono da una posizione diversa da quella dei padri e vi rimangono. La seconda categoria è quella degli “immobili” (29,8%), ovvero individui che permangono sempre nella stessa classe del padre. Essi sono più numerosi tra gli uomini (31,5%, contro il 27,2% delle donne.

Il terzo gruppo, cioè i “mobili nel corso della vita attiva” (11,5%), sono i figli che partono dalla stessa posizione occupazionale dei loro padri e, successivamente, ne raggiungono una diversa. Ad essi si affiancano i “mobili all’inizio e nel corso della vita attiva” (11,1%, in calo dal 14,6% del 2003), i quali partono da una posizione occupazionale diversa da quella del padre, per cambiarla in seguito.

Infine, il gruppo dei “mobili con ritorno alle origini” è quello meno numeroso (7,2%); esso include gli individui che all’ingresso nel mercato del lavoro occupano una posizione diversa da quella del padre ma, nel corso della vita lavorativa, vi ritornano.

Politiche di sostegno al reddito

Politiche attive

Sono gli uomini a fruire maggiormente delle misure di politiche attive del lavoro. Fanno eccezione alcune tipologie delle quali beneficiano maggiormente le donne, quali le agevolazioni per sostituzione di astensione obbligatoria, il lavoro a chiamata o intermittente e i contratti di inserimento. Sotto il profilo territoriale, le misure di politiche attive del lavoro trovano applicazione soprattutto al Nord. Ci si riferisce, in particolare, a quelle che riguardano assunzioni agevolate in sostituzione di lavoratori in astensione obbligatoria (circa il 70% è concentrato in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), al lavoro somministrato (più del 40% è nel Nord-ovest) e al lavoro intermittente o a chiamata (circa il 40% è nel Nord-est). Altre misure, invece, sono più diffuse nel Sud della Penisola: si tratta, in particolare, delle assunzioni agevolate di disoccupati, dei beneficiari di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) da almeno 24 mesi, di giovani già impegnati in borse di lavoro (concentrati per il 50% al Sud, specie in Campania, e per il 30% nelle Isole, soprattutto in Sicilia) e di contratti di inserimento (che vengono sottoscritti in questa area del Paese nel 41% dei casi). Tra le politiche di più recente istituzione, particolarmente utilizzate risultano quelle che riguardano il Lavoro intermittente o a chiamata (+44,3% nel 1° semestre 2011 rispetto all’anno precedente). Questo contratto viene applicato in larga parte agli operai.

Disoccupazione

L’analisi della Disoccupazione non agricola con requisiti ordinari e speciale edile mostra che rispetto al 2009, anno di inizio della crisi economica, il numero medio annuo dei beneficiari nel 2010 e nel 2011 è cresciuto ancora, rispettivamente dell’8,5% e del 4,5%. La composizione per genere del numero medio di disoccupati si è mantenuta più o meno costante nel periodo 2009 – 1° semestre 2012, con una prevalenza di maschi, che rappresentano il 55,0% del totale.

L’analisi sull’evoluzione longitudinale mensile dei beneficiari del trattamento di disoccupazione ordinaria non agricola e speciale edile mostra che, mediamente, a sei mesi dall’entrata in disoccupazione, un disoccupato su due si rioccupa (poco più di un assunzione su dieci è a tempo indeterminato) e a dodici mesi la percentuale sale al 66% (circa il 13% delle assunzioni è a tempo indeterminato); l’1,5% esce dallo stato per pensionamento.

Maggiore difficoltà al reimpiego si osserva per i beneficiari ultracinquantenni, le cui percentuali di reimpiego sono molto al di sotto della media; tuttavia si registra contestualmente un ovvio incremento delle uscite per pensionamento per la medesima classe di età. La durata dei contratti a tempo determinato è variabile per le diverse generazioni e antidurate, ossia correlata al tempo trascorso percependo l’indennità di disoccupazione, ed è mediamente di circa di circa cinque mesi e mezzo.

Mobilità

Il numero medio annuo (su base mensile) di beneficiari di indennità di mobilità mostra un incremento dal 2009 pari al 18,5% nel 2010, 9,9% nel 2011 e 11,0% nel 1° semestre 2012.

L’analisi longitudinale su due generazioni di nuovi beneficiari di indennità di mobilità mostra, per la generazione del 2005, che dopo sei anni il 51,4% della coorte iniziale è in attività lavorativa e il 28,5 è pensionato.

Risulta pari al 52,9% il numero di beneficiari di genere maschile che è in attività a distanza di sei anni, mentre la percentuale dei pensionati è del 32%; per le donne l’incidenza è rispettivamente del 49,2% per quelle in attività e del 23,5% per le pensionate. Per gli ultracinquantenni la situazione è molto diversa: dopo sei anni la percentuale di beneficiari in attività è solo del 11,5% mentre la percentuale di pensionati sale al 77%.

Cassa integrazione guadagni

Nel 2011, il 59,2% dei beneficiari di indennità di Integrazione salariale ordinaria (CIGO) lavora nelle regioni del Nord, il 18,4% in quelle del Sud, il 16,6% in quelle del Centro e infine il 5,8% nelle Isole. Il fenomeno, per quanto più consistente per gli uomini che per le donne, conserva prevalentemente la stessa distribuzione a livello geografico e si concentra nelle fasce di età tra i 30 e i 50 anni (64,5).

Nello stesso anno il 55,2% dei beneficiari di indennità di Integrazione salariale straordinaria (CIGS e CIGD) svolge l’attività lavorativa nelle regioni del Nord, il 20,6% in quelle del Centro il 18,9% in quelle del Sud e il 5,3% nelle Isole. I beneficiari sono più uomini che donne, si distribuiscono in misura simile sul territorio e sono concentrati nelle fasce di età tra i 30 e i 50 anni (64,5).

Assegni familiari

Nel complesso i beneficiari di assegni al nucleo familiare sono 2 milioni 900mila per ciascun anno del triennio 2009-2011. Le classi di età con il maggior numero di beneficiari sono quelle dei 30-39enni (33,1%) e dei 40-49enni (45,3%). Relativamente pochi sono i beneficiari appartenenti a nuclei familiari numerosi: più del 60% appartiene a nuclei fino a tre componenti, il 31,9% dei beneficiari ha un nucleo familiare di quattro persone, il 6,1% di cinque e appena l’1,2% ne ha più di cinque.

Pensioni e pensionati

Al 31 dicembre 2011 i pensionati sono 16 milioni 669 mila; di questi, il 75% percepisce solo pensioni di tipo Invalidità, Vecchiaia e Superstiti (Ivs), il restante 25% riceve pensioni di tipo indennitario e assistenziale, eventualmente cumulate con pensioni di tipo Ivs.

Sotto il profilo geografico, il 28,3% dei pensionati risiede nel Nord Ovest, il 20,1% rispettivamente nel Nord Est e nel Centro, il 21,2% nel Sud e il 10,2% nelle Isole.

La classe di età più numerosa è quella degli ultraottantenni, con circa 3 milioni 828 mila pensionati, seguono quella dei 70-74enni, con 2 milioni 920 mila pensionati e quella dei 65-69enni con 2 milioni 812 mila individui; l’8,1% dei pensionati ha meno di 55 anni.

Quasi un pensionato su due (47,5%) ha un reddito da pensione inferiore a mille euro, il 37,7% ne percepisce uno fra mille e duemila euro, mentre per il 14,5% dei pensionati il reddito pensionistico è superiore a duemila euro. Dal 2009 al 2011, anche in funzione delle recenti riforme previdenziali, il numero dei pensionati diminuisce mediamente dello 0,4%, mentre l’importo annuo medio e mediano del reddito aumentano del 5,3%.

Invalidità e assegni sociali

Al 31 dicembre 2011, ammontano a circa 4 milioni 400mila i Pensionati d’invalidità e assegni sociali, 2 milioni 77mila sono maschi e 2 milioni 320mila femmine. Fra i pensionati residenti in Italia, Il 20,2% vive nel Nord Ovest, il 15,9% nel Nord Est, il 21% nel Centro, il 29,0% nel Sud e il 13,9% nelle Isole. Nella distribuzione per età, la classe più numerosa è quella degli ultraottantenni (35,1%). Il 51,8% dei pensionati d’invalidità e assegni sociali percepisce un importo mensile inferiore a 1.000 euro, il 29,8% un importo mensile compreso tra 1.000 e 1.500 euro, appena il 2,1% riceve un importo superiore ai 3.000 euro mensili. Il numero di Pensioni di invalidità previdenziale è pari a 1 milione 409 mila, di cui 648 mila percepite dagli uomini e 760 mila dalle donne, con un importo medio annuo rispettivamente di 9.545 e 6.539 euro. Le pensioni d’invalidità previdenziale, i cui titolari risiedono in Italia, si distribuiscono sul territorio per il 17,0% nel Nord Ovest, per il 14,3% nel Nord Est, per il 21,3% nel Centro, per il 32,6% nel Sud e per il 14,8% nelle Isole.

Anche in questo caso la classe di età più numerosa è quella degli ultraottantenni, con 658 mila pensioni d’invalidità previdenziale, mentre appena lo 0,1% viene erogata a persone under30. L’89,7% delle pensioni d’invalidità previdenziale è sotto i mille euro mensili, mentre solo l’1,1% è sopra i duemila. Nel 2011 sono state erogate oltre 3 milioni 172mila pensioni di invalidità civile, circa 1 milione

255mila a uomini e 1 milione 917 mila a donne, che vivono nel 20,6% dei casi nel Nord-ovest, per il 15,2% nel Nord-est, per il 20,2% nel Centro, per il 29,5% nel Sud e per il 14,6% nelle Isole. Le rendite per gli infortuni sul lavoro sono oltre 718 mila nel 2011, di cui più di 618 mila assegnate a uomini e circa 100 mila a donne. L’importo medio annuo erogato è pari a 4.375 euro. La classe di età più numerosa è sempre quella degli ultraottantenni con 144 mila rendite per infortunio, segue quella 70-74 anni, con 109 mila, e quella 75-79 anni, con 102 mila, mentre la meno numerosa è la classe sotto i 30 anni. Quasi il 95% delle rendite erogate per infortunio sul lavoro ha un importo medio mensile inferiore a mille euro. Il numero delle pensioni di guerra è pari a oltre 98mila, delle quali l’86% erogate a uomini.

Il 16,7% di queste pensioni è concentrato nel Nord-ovest, il 18,7% nel Nord-est, il 29,3% al Centro, il 23,6% al Sud e l’11,7% nelle Isole. L’importo medio annuo è di 9.018 euro. La classe di età più numerosa è quella degli ultraottantenni, mentre solo lo 0,7% delle pensioni di guerra interessa le classi fino a 29 anni. Il 90,2% delle pensioni di guerra presenta un importo medio mensile inferiore ai mille euro, l’8,1% è compreso fra mille e duemila euro, e la restante quota ha un importo sopra i duemila euro. Rispetto al 2009, il numero delle pensioni di guerra è diminuito del 12,7%. Sono circa 821mila le pensioni e assegni sociali erogate nel 2011, di cui circa 271 mila corrisposte a uomini e circa 550mila a donne. L’importo medio annuo è di 5.088 euro. Sul territorio queste pensioni si distribuiscono per il 16,1% nel Nord-ovest, l’11,1% è nel Nord Est, il 20,1% al Centro, il 33,5% al Sud e il 19,3% nelle Isole. La classe di età più numerosa è quella dei 65-69enni, con oltre 267mila pensioni erogate. Rispetto al 2009 aumentano leggermente sia il numero di pensioni e assegni sociali (+2,3%) erogati nel 2011 sia il relativo importo medio annuo (+1,7%).

Servizi sociali

Spesa per servizi socio-assistenziali

Nel 2009 i Comuni italiani, in forma singola o associata, hanno destinato agli interventi e ai servizi sociali 6 miliardi e 978 milioni di euro. La spesa media pro capite è pari a 115,9 euro, ma le differenze territoriali sono significative: si va da un minimo di 25,5 euro in Calabria a un massimo di 297 nella provincia autonoma di Trento. Al di sopra della media nazionale si collocano tutte le regioni del Centro-Nord, con l’eccezione dell’Umbria, e la Sardegna, mentre il Sud (escluse le Isole) presenta i livelli più bassi di spesa media pro capite (51 euro), circa tre volte inferiore a quella del Nord-est (161 euro).

Famiglia e minori, anziani e persone con disabilità sono i principali destinatari delle prestazioni di welfare locale, su queste tre aree di utenza si concentra l’81,8% delle risorse impiegate, in lieve diminuzione rispetto al 2008 (82,6%).

Le politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale incidono per l’8,3% della spesa sociale, mentre il 6,3% è destinato ad attività generali o rivolte alla “multiutenza”. Le quote residue riguardano le aree di utenza “immigrati e nomadi” (2,7%) e “dipendenze” (0,9%).

Asili nido

Nell’anno scolastico 2010/2011 risultano iscritti agli asili nido comunali 157.743 bambini di età tra zero e due anni, mentre altri 43.897 usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti.

Nel 2010 la spesa impegnata per gli asili nido da parte dei Comuni o, in alcuni casi, di altri enti territoriali delegati dai Comuni stessi, è di circa 1 miliardo e 227 milioni di euro, al netto delle quote pagate dalle famiglie.

Fra il 2004 e il 2010 la spesa corrente per asili nido, al netto della compartecipazione pagata dagli utenti, ha mostrato un incremento complessivo del 44,3%, che scende al 26,9% se calcolato a prezzi costanti. Nello stesso periodo è aumentato del 38% (oltre 55 mila unità) il numero di bambini iscritti agli asili nido comunali o sovvenzionati dai Comuni.

La percentuale di Comuni che offre il servizio di asilo nido, sotto forma di strutture comunali o di trasferimenti alle famiglie che usufruiscono di strutture private, ha registrato un progressivo incremento, dal 32,8% del 2003/2004 al 47,4% nel 2010/2011. I bambini tra zero e due anni che vivono in un Comune che offre il servizio sono passati dal 67 al 76,8% (indice di copertura territoriale). Entrambi gli indicatori, tuttavia, mostrano una lieve riduzione nell’ultimo anno.

Nonostante il graduale ampliamento dell’offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0% dei residenti tra zero e due anni dell’anno scolastico 2003/2004 all’11,8% del 2010/2011.

Rimangono molto ampie le differenze territoriali: la percentuale di bambini che usufruisce di asili nido comunali o finanziati dai Comuni varia dal 3,3% al Sud (era il 3,4% l’anno precedente) al 16,8% al Nord-est (era il 16,4%); la percentuale di Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 20,8% al Sud (era il 21,2) al 78,2% al Nord-est (era il 77,3%).

 

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