Il Metodo: a Teatro una metafora sul lavoro

Quale prova si è disposti ad accettare pur di ottenere un lavoro? È un interrogativo che sorge spontaneo vedendo a teatro Il Metodo, scritto da Jordi Galceran nel 2003 (t.o. “El método Grönholm”), adattato da Pino Tierno e diretto da Lorenzo Lavia. Sempre più la figura dei manager e il luogo topico dell’azienda diventano rappresentativi di ciò che siamo. «Questo testo è una metafora sul mondo del lavoro», ha dichiarato Fiorella Rubino, l’unica attrice in questo quartetto di interpreti. In una sala asettica, tra luci al neon e pareti in plexiglass, arrivano i quattro candidati per l’ultimo colloquio decisivo per la carica di direttore commerciale di una multinazionale svedese, la Dekia, o almeno loro così sanno o quantomeno questo è ciò che ci raccontano. Il meccanismo posto in campo dallo scrittore catalano è un hunger games per cui non sarebbe corretto svelarvi anche solo le prove a cui i quattro sono sottoposti. Ancor più in questo caso, quindi, vi consigliamo la visione diretta per scoprire da voi il gioco delle parti, riflettendo su cosa saremmo capaci di sopportare pur di lavorare.

©Gabriele Gelso
©Gabriele Gelso

A teatro, guardando Il Metodo, ci si chiede quale sia il confine tra pubblico e privato? Un’azienda ha diritto di oltrepassarlo? Domande che ogni personaggio rilancia tra fragilità, battute ciniche e desiderio di farcela. La regia di Lavia riesce a far emergere le pieghe (dis)umane del cosiddetto sistema, forte anche delle prove attoriali. Gigio Alberti, nei panni di Carlos, conferma il suo essere un istrionico del palcoscenico, facendoci sorridere da torero in una prova “mascherata” che devono superare e rendendo credibili tasti ritenuti ancora molto scottanti e legati all’identità sessuale – e vi lasciamo nell’ambiguità. Il suo Carlos si ritrova spesso come contraltare Ferran, interpretato da un Giorgio Pasotti in parte. Potremmo dire che a fare, apparentemente, da pungiball c’è Enrique, un Antonello Fassari in piena forma. Infine c’è lei, Mercedes, definita dalla stessa Rubino «una iena avvenente». Su Cultura & Culture si è trattato a più riprese l’argomento lavoro pure nell’ottica del comportamento da avere durante un colloquio. Assistendo alla visione de Il Metodo ci si diverte, ma si resta sbigottiti nel pensare che questo metodo Grönholm venga davvero adoperato, soprattutto negli Stati Uniti (il nome deriva dallo psicologo svedese che ha ideato questi test psicoattitudinali). Ci si sente interpellati nel gioco teatrale per scoprire chi siano davvero questi quattro e con un ritmo abbastanza serrato si giunge alla “rivelazione” lasciando strade aperte all’interpretazione del pubblico senza che l’autore emetta giudizi. Per la natura della pièce e forse anche dell’immagine che abbiamo del sistema e della competizione viene in mente subito l’espressione “gioco al massacro” e, nello specifico, “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza, per quanto lì ci fossero due coppie incontratesi e scontratesi “per riparare” a un incidente tra i figli. A un tratto il testo della drammaturga franco-iraniana recitava: «Véronique, io credo nel dio della carneficina. È l’unico dio che comanda dalla notte dei tempi, e senza riserve». A suo modo, quel dio della carneficina lo ritroviamo ne Il Metodo, declinato anche in queste indicazioni per le prove che arrivano dall’alto con un meccanismo che non è la voce fuori campo. Certo ci sono le dovute differenze tra i testi e i due autori, ma c’è anche un humus che, in modo personale, rispecchia quello che noi siamo diventati con l’arma del cinismo.

Ne Il Metodo e nel nostro mondo guidato da multinazionali si è valutati non per il lavoro che si compie o il curriculum, ma per possibili “scheletri” personali che emergono nel confronto con gli altri candidati. Vi starete chiedendo come i capi possano saperli? È il potere del grande fratello già esplicitato da Orwell e degenerato ai nostri tempi. «Questi i piccoli effetti collaterali del capitalismo», ha detto – ironicamente – Galceran. La scenografia de Il Metodo (curata da Gianluca Amodio) è un non luogo e quale scatola migliore per accoglierla se non il teatro, puntando pure su un’unità di luogo e azione funzionali a fare occhio di bue e far calare le maschere. Un minuto prima penserete di avere inquadrato quel personaggio, eppure, subito dopo, verranno cambiate le carte in tavola grazie al confine tra verità e menzogna amplificato dall’essere in scena. Stiamo parlando di un teatro in cui la parola è centrale insieme alla mimica e all’espressività. Se volete vedere come si può diventare «cavie da laboratorio» e guardarvi, sorridendo, è lo spettacolo che fa per voi. Il Metodo è in scena fino a domenica 22 maggio al Teatro Manzoni di Milano.

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