Ecco Il Mercante di Venezia di Scaramella: recensione

Recensione de Il Mercante di Venezia di Loredana Scaramella – «Un ebreo, non ha occhi? non ha mani, un ebreo, membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? […] se ci pungete, non sanguiniamo? se ci fate solletico, non ridiamo? se ci avvelenate, non moriamo? e se ci fate torto, non ci vendicheremo? Se siamo come voi in tutto il resto, vi somiglieremo anche in questo». Quando si pensa a Il Mercante di Venezia di William Shakespeare sono queste le parole che più ci vengono in mente, il famoso monologo di Shylock. Questo è dovuto anche ad alcune trasposizioni cinematografiche, non ultima quella di Michael Radford, nel 2004, con Al Pacino nei panni del mercante ebreo. Nella messa in scena diretta da Loredana Scaramella (che ne cura anche la traduzione), in programmazione al Silvano Toti Globe Theatre di Roma fino al 7 agosto, si cerca di dar corpo e spazio a tutti i registri messi in campo dall’autore inglese riposizionando anche alcune dinamiche. Ciò accade sin dall’incipit molto suggestivo che sfrutta le potenzialità di questo particolare teatro. Il mercante del titolo, Antonio (un Fausto Cabra incisivo nel lasciar il segno anche quando non è sul palco, proprio in linea col ruolo), viene trasportato a peso morto da uomini il cui volto verrà svelato solo nelle scene successive e non è un caso che lui sia l’unico a non indossare la maschera. È un passaggio che vuole simboleggiare ciò che Antonio rappresenta all’interno della storia – la cosiddetta vittima sacrificale – dall’altro anticipa come suggestione ciò che gli accadrà. Subito dopo si prosegue seguendo fedelmente il testo originale, puntando l’accento su pieghe talvolta trascurate e facendo emergere l’universalità dei tasselli che lo compongono. Spesso si è ridotto “Il Mercante di Venezia” alla tematica ebrei-cristiani, creando e alimentando anche alcuni luoghi comuni, ma il bardo aveva usato quella caratterizzazione per parlare di culture e far emergere le diversità umane e arrivare a questioni cardini. Cos’è la giustizia? E la clemenza? Come metterle in atto? Qual è il limite a cui si spinge l’uomo?

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Ne Il Mercante di Venezia Antonio per aiutare il suo amico Bassanio (Mauro Santopietro) a conquistare la donna che ama, Porzia (una bravissima Sara Putignano), è disposto a chiedere il prestito all’usuraio ebreo (un intensissimo e deciso Carlo Ragone) impegnando come penale una libbra della sua carne, richiesta che appare alquanto bizzarra, propinata come segno quasi d’amicizia da parte di Shylock puntando proprio sull’assurdità dell’ammenda. Già qui emergono dei punti nodali: ciò che muove alcune relazioni è l’amore, a partire da quello che lega Antonio e Bassanio. C’è un’ambiguità di fondo tra i due amici, cavalcata sottilmente dagli interpreti e dalle dinamiche tra i personaggi. In seconda battuta, per quanto fosse così nel Cinquecento e in varie epoche, il fatto che l’uomo possa presentarsi al cospetto dell’amata con una dote di un certo tipo è sintomatico – criterio globale che viene enfatizzato dalla decisione della Scaramella di ambientare la pièce tra fine Ottocento e inizi del Novecento. I soldi e i sentimenti fanno così da padrone nelle persone così ben tracciate dall’autore e ora rese vive da questo cast. Il bello di questo testo talmente complesso di Shakespeare è che tutti, dal ruolo più significativo a quello apparentemente più defilato, partono in un modo per poi evolversi in altro in base al motore che li muove o al ruolo che gli è stato assegnato. Anni fa (nel 2009) il maestro Luca Ronconi aveva voluto cimentarsi puntando l’occhio di bue teatrale sulla ricerca della propria identità e facendo cominciare tutto sempre da un Antonio (allora incarnato da Riccardo Bini) in soliloquio meditativo, «questa mia tristezza fa di me un tale inetto che fatico a conoscere me stesso», diceva.

Ne Il Mercante di Venezia della Scaramella eros e denaro vengono rappresentati ora con leggerezza, ora con toni più grevi a seconda del registro che prevale nell’hic et nunc di quell’atto scenico e vitale. «Io il mondo lo considero per quello che è, un palcoscenico su cui recitare ognuno il proprio ruolo, solo che il mio è molto triste», dice Antonio a Graziano nel primo atto. L’uomo è pronto a rinunciare al suo oggetto d’amore per amore ed è così che si arriva all’amore mercanteggiato, declinato a suo modo pure nella vicenda della lotteria degli scrigni per Porzia a Belmonte e di Jessica (una Mimosa Campironi in parte, oltre che dal bel canto), figlia di Shylock, e Lorenzo (Diego Facciotti). In questa prospettiva, la bilancia per pesare la libbra di carne diventa così simbolo di quella vicenda, ma anche di tutta la vita umana così come nelle coppie che si vengono a creare (comprese quelle amicali) l’uno è specchio dell’altro perché tutti, o quasi, sono doppi. Andando perciò oltre la questione ebreo-cristiano, Shakespeare e questo adattamento ci comunicano come i rapporti umani siano tutta una questione di pesi e contrappesi e così l’intolleranza religiosa è solo uno schermo dietro cui si celano altre intolleranze altre pronte a scoppiare da un momento all’altro. La regista, forte anche della lezione di Gigi Proietti, cerca di non trascurare gli aspetti da commedia insiti ne Il Mercante di Venezia e questo aiuta tanto nel mantenere alta l’attenzione dello spettatore (anche il meno avvezzo alla visione teatrale soprattutto di certi classici) di fronte a un testo non semplice come fruizione. In tal senso sono degne di nota la prova d’attore di Federico Tolardo nel ruolo di servitore, oltre che di servo di scena all’occorrenza (spicca ancor più nel dialogo tra Diavolo e Coscienza) e come sono state messe in scena, in quel di Belmonte, le prove dei pretendenti di Porzia, il Principe del Marocco (Paolo Giangrasso) e il Nobile d’Aragona. La Scaramella gioca con l’idea del travestimento e del teatro, citato sottilmente come metafora della vita anche dallo stesso Shakespeare e inserisce la nobile donna in un camerino da grande attrice pronta a indossare la maschera e l’abito giusto in base al pretendente di turno finché non arriverà l’uomo che si augura. «Il suo regno è quel luogo indefinito nel quale si collocano le fantasie senza tempo del perfetto amore, condite con il gioco infantile del travestimento, della danza, delle canzoni leggere e dolci venate da improvvise cadenze di tango», scrive la regista. «Dal contrasto fra queste atmosfere sonore e i motivi kletzmer che accompagnano le scene più drammatiche prende forma il tessuto musicale della commedia, che si spinge nella veste visiva fino ai primi anni Venti». Non possiamo non sottolineare positivamente, infatti, la scelta musicale (dai tanghi di Gardel a “Youcali” di Kurt Weil, passando per brani della tradizione yiddish – solo per citarne alcuni e rendervi l’idea dell’atmosfera) con le performance dal vivo del Trio William Kemp (violino Adriano Dragotta, sassofoni Lorenzo Perracino e alla chitarra Franco Tinto) pronti ad allietare anche la pausa tra gli atti. L’interno borghese forse potrà apparirvi ancora più familiare e avvicinarvi come tempi. I sentimenti, in tutte le loro sfumature, sono quelli di ogni epoca che Shakespeare sapeva maneggiare e scandagliare a fondo. Questa compagnia lo fa con la levità e le punte di profondità che Il Mercante di Venezia merita. Da vedere.

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