Fabrizio Gifuni: «Io, Luca Ronconi e la magia del teatro»

 

Lehman Trilogy
Lehman Trilogy

Lo scorso anno è stato insignito con tre principali riconoscimenti, quali il Nastro d’Argento, il David di Donatello e il Premio Vittorio Gassman al Bif&st per il ruolo di Giovanni Bernaschi ne “Il capitale umano” di Paolo Virzì. Per chi ancora non lo sapesse, alle spalle, Fabrizio Gifuni ha un percorso di tutto rispetto, quella sana gavetta iniziata subito dopo il diploma, nel 1992, all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, dov’era nella stessa classe con Alessio Boni, Luigi Lo Cascio, Pierfrancesco Favino e tanti altri. Tra i protagonisti de “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, giostrandosi tra piccolo, il grande schermo e il teatro Fabrizio Gifuni ha dato il volto anche a personaggi veramente esistiti da Alcide De Gasperi a Paolo VI, da Aldo Moro all’intensa e partecipata interpretazione di Franco Basaglia (se ve li foste persi, vi consigliamo di recuperarli, assieme a pellicole del nostro cinema indipendente come, per citarne una, “La Leggenda di Kaspar Hauser” di Davide Manuli). Nella sua carriera il teatro ha avuto sempre un ruolo fondamentale, vitale. Ci rendiamo conto di quanto non sia semplice – tanto più a livello emotivo – approfondire un lavoro in corsa toccato dalla scomparsa recentissima del suo regista. Abbiamo incontrato Fabrizio Gifuni mentre era in scena al Piccolo Teatro di Milano con “Lehman Trilogy” di Stefano Massini, ultima regia e testimonianza viva di Luca Ronconi.

©Filippo Milano
©Filippo Milani

Che cosa l’ha colpita quando ha letto per la prima volta “Lehman Trilogy”?

Innanzitutto la storia perché ho pensato subito che fosse una grande idea ripercorrere, con un concetto del tempo e dello spazio molto fluido, centossessant’anni della storia dei Lehman Brothers, quella che è diventata una delle più importanti banche d’affari del mondo e il cui epilogo, nel 2008, ha avuto e continua ad avere riverberi su ognuno di noi. Era affascinante andar a vedere cosa ci fosse all’origine di quella storia attraverso un testo che sta a metà tra la ballata e il racconto epico. In più mi colpiva molto l’estrema piacevolezza e la scorrevolezza di questa lettura nonostante si trattasse di un testo che affrontava tanti anni, in versi e su un tema che, sulla carta, poteva anche non risultare così avvincente.

È stato subito chiamato per il ruolo di Emanuel Lehman, il secondo dei fratelli Lehman?

Sì direttamente per questa parte. Ho incontrato Luca Ronconi, il quale mi ha parlato prima del progetto (traspare dallo sguardo e dalla voce l’emozione e il pudore con cui ce ne parla)… non era mai capitato di lavorare insieme, a parte un seminario di due/tre settimane ai tempi dell’Accademia, in più, negli ultimi anni, non mi son mai preso un periodo di tempo così lungo al di fuori dei miei progetti teatrali. Quando ho ricevuto, a distanza di così tanti anni, questa proposta, su questo progetto, ho percepito che ci fosse qualcosa di speciale e anche un po’ “misterioso” e ho capito subito che non poteva che essere accolta con entusiasmo.

Come accennava Lei… dal 2004 con ‘Na specie de cadavere lunghissimo (da Pier Paolo Pasolini e Giorgio Somalvico), per la regia di Giuseppe Bertolucci, ha iniziato un percorso di ricerca teatrale mettendo in campo ciò che le è più a cuore, riservandosi per il cinema e la tv il ruolo di scritturato. Come cambierà il suo approccio dopo l’incontro con Ronconi?

Per ora devo riprendere alcuni miei lavori e continuare a lavorare al nuovo spettacolo, certamente il tesoro che mi porterò in dote è quello che resta quando si è fatto un grandissimo incontro con un maestro assoluto, è un tesoro interiore oltre che di “artigianato teatrale”. Credo che me ne accorgerò col tempo, ma già a breve con la ripresa de “L’ingegner Gadda va alla guerra” (al Teatro della Pergola di Firenze dal 24 al 29 marzo), so che quelle repliche, che già di per sé, ogni sera, sono diverse, lo saranno ulteriormente dopo questo attraversamento fatto con Ronconi.

Ronconi è molto noto anche per l’analisi del testo che sapeva compiere. Ci potrebbe parlare del lavoro nel corso delle prove e qual è stato – se c’è stato – l’apporto di Stefano Massini?

Luca aveva fatto con Massini il lavoro di riduzione per decidere quali parti sacrificare (essendo il testo molto più lungo) e soprattutto l’assegnazione delle parti visto che nel testo di partenza c’è una voce narrante unica. Si trattava di organizzare una drammaturgia che prevedesse in scena dodici attori. In seguito, c’è stata la prima riunione di compagnia a cui ha partecipato Massini facendo una lunga introduzione sulla cultura ebraica; dal secondo giorno abbiamo lavorato solo con Luca perché credo che volesse avere la libertà di immaginare, smontare e rimontare il testo durante le prove. Rispetto all’analisi del testo di Luca, avevo potuto osservare, in piccolo e in un breve tempo, durante quel seminario in Accademia (sul “Riccardo II” di Shakespeare e su “Il Candelaio” di Bruno), questa sua capacità quasi “sciamanica” ma al contempo logica di tirar fuori dal testo tutto quello che c’è facendoti vedere profondità e sfumature che restano quasi sempre invisibili e sommerse… lo hanno raccontato gli attori che in più spettacoli hanno lavorato con lui: era uno dei suoi tanti talenti più sfolgoranti.

A proposito del teatro di parola: Luca Ronconi, durante la conferenza stampa (27 gennaio 2015) di presentazione di “Lehman Trilogy” ha affermato: «sono abbastanza convinto che prima o poi un ritorno al teatro di parola nel modo più alto del termine – ossia non soltanto di lingua, ma di lingua, di significato, di appartenenza – sarà presto necessario». Cosa ne pensa?

Gifuni, Boni, Lo Cascio, Favino ai tempi della formazione
Gifuni, Boni, Lo Cascio, Favino ai tempi della formazione

Sono completamente d’accordo. Il testo, nei suoi molteplici aspetti, continua e continuerà a essere uno degli elementi centrali del gioco teatrale. Credo che Ronconi dicendo «sarà presto necessario» volesse sottolineare come negli ultimi vent’anni ci siano stati un appannamento dello sguardo e una scarsa capacità di riattribuire l’integrità alle parole. Certo il teatro è quasi sempre fondato sulla parola, i testi son andati in scena, ma cosa significa per un attore, per un regista farsi davvero carico, con totale consapevolezza, delle parole di un testo? Che gesto è condividerle con una comunità? Spesso, in teatro e non solo, le parole finiscono al vento. Penso che Ronconi parlasse di questo: di rimettere la parola nel suo giusto fuoco senza accontentarsi mai. Io ho sempre cercato di farlo nei miei spettacoli e questa è stata una delle cose che me lo rendeva più vicino: da un lato l’importanza, il valore, la bellezza e l’entusiasmo di giocare con la propria lingua, dall’altro la passione di lavorare quasi sempre su una drammaturgia aperta. I due spettacoli su Pasolini e Gadda nascono da un lunghissimo lavoro di invenzione del testo e di creazione di una drammaturgia partendo da materiali non teatrali che, diventano, un fatto teatrale, come se il momento interpretativo fosse diventato l’ultimo segmento di un percorso più lungo e scandito nel tempo. Ronconi spesso, soprattutto nelle ultime stagioni, ha lavorato su testi non propriamente teatrali, lo stesso “Lehman Trilogy” è un ibrido, in particolare sul piano della forma, certo pensato anche per il teatro vista pure la natura dell’autore (è un drammaturgo).

Si è sottolineato molto il vuoto provocato dalla perdita di registi come Massimo Castri (21 gennaio 2013) e lo scorso 21 febbraio Luca Ronconi. Ci si è chiesto cosa restasse e c’è chi ha usato toni come se tutto fosse “finito”. Lei ha potuto lavorare con Orazio Costa Giovangigli durante gli anni della formazione in Accademia, con Castri (dal 1993/1994 al 1996/1997) e adesso con Ronconi. Qual è il suo sguardo, dall’interno, sulla situazione attuale?

Credo sia bene distinguere… da un lato c’è un valore assoluto che non ha età e questo vale per tutti i campi: il valore dei grandi uomini, la cui “eredità” è nei fatti, nel patrimonio vivo, che può essere raccolto, tradito o rimanere inutilizzato, ma è una scia che nessuno può cancellare. Focalizzandoci sul teatro, quello che ha lasciato Orazio Costa come magistero di intere generazioni di attori è inestimabile così come ciò che ha lasciato Ronconi. Un altro discorso è se si considera la regia da un punto di vista storico. Qui il tempo assume un valore. Così come accade in letteratura o in arte, le epoche sono contrassegnate da movimenti storici, cicli che si aprono e si concludono. Il grande teatro di regia ha avuto un suo fulgore e sicuramente la morte dei tre massimi rappresentanti del ‘900 – Giorgio Strehler, Castri e Ronconi – segna la fine di un’epoca. Cosa che non credo debba essere vista necessariamente e solo come una cosa negativa. È una stagione che si chiude per poi magari – dopo un periodo più o meno lungo – rinascere, fa parte del movimento delle correnti artistiche. Ronconi aveva consapevolezza di questo movimento perciò penso che abbia fatto quell’affermazione in conferenza stampa. Un altro aspetto ancora è quello puramente umano. E qui c’è solo perdita da qualsiasi punto la si guardi. Qualche giorno fa è mancata un’altra persona che per me – e non solo – è stata un maestro: Paolo Terni, è stato il nostro insegnante di Storia della Musica durante l’Accademia, la prima persona a farmi leggere Gadda e a suggerirmi input verso “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”… quello che hanno seminato lavora dentro e continuerà ad essere così.

Fabrizio Gifuni - L'ingegner Gadda va alla guerra
Fabrizio Gifuni – L’ingegner Gadda va alla guerra

 

Quali sono i prossimi progetti a cui si dedicherà?

Sto lavorando già da tempo a un nuovo spettacolo, in collaborazione con Fanny & Alexander, sul rapporto tra teatro e processo penale. Dovrebbe debuttare nella stagione 2016-2017.

Dando l’appuntamento per “Lehman Trilogy” (dal 12 al 31 maggio) in concomitanza con l’Expo e per omaggiare Luca Ronconi, cosa direbbe per attrarre alla visione chi pensa che sia una pièce meramente sull’economia?

Potrei risponderti che non c’è bisogno di attrarre nessuno perché le repliche da gennaio al 15 marzo son andate tutte esaurite e le nuove date di maggio sono già molto gettonate… Ciò che penso è che, mentre qualche anno fa parlare di economia e finanza era qualcosa di estraneo a quasi tutti, la crisi profonda che stiamo vivendo da anni ha cambiato l’atteggiamento del pubblico. Si è molto più curiosi, si vuole iniziare a capire cosa ci sia dietro quel “gioco di numeri” che ha avuto un effetto tragico sulle nostre vite e, probabilmente, sei o sette anni fa questo spettacolo non avrebbe avuto tutto questo riscontro. Le persone non sono invogliate solo dal fatto che sia diretto da Ronconi o dalla compagnia, ma anche dal tema. Mi è capitato anche al cinema con “Il capitale umano”, un film che ha avuto grande risonanza anche sul piano internazionale, diretto magnificamente, con un bellissimo cast, ma è anche un’opera che tocca lo spettatore perché racconta in maniera diretta come l’economia e la finanza si riflettano oggi sulle nostre vite. Adesso non c’è più bisogno di spiegare perché andar a vedere “Lehman Trilogy” o “Il capitale umano”, quegli argomenti non solo non annoiano né spaventano più, ma interrogano e sono materia viva. Poi, molto spesso – e ci credo in maniera assoluta – l’arte riesce, a volte, a illuminare molto meglio alcune zone e vicende della nostra storia, più di quanto non riescano a fare dei testi tecnici o un corso universitario perché l’arte, se è vera, riesce ad arrivare a delle intuizioni che fanno scattare quel famoso corto circuito tra testa, cuore ed emozioni che ti porta a capire meglio cosa hai di fronte.

 

Maria Lucia Tangorra

 

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