L’attore Antonio Grosso: il Teatro? Come la Nazionale di calcio

antonio grosso

Antonio Grosso, autore teatrale e attore, classe 1982. I suoi testi hanno la caratteristica di trattare, con leggere pennellate, argomenti e pensieri importanti, senza mai dimenticare il sorriso. A diciassette anni già calcava il palcoscenico, poi ha cominciato a scrivere seriamente per il teatro. E il successo è arrivato subito, con la sua prima commedia: Giggino Passaguai. Da quel momento, la sua cifra artistica è andata costantemente migliorando e, passando per “Minchia Sig. Tenente”, “Papà al cubo”, “Vicini di stalla”, fino all’ultima sua opera, che Cultura & Culture ha recensito qualche mese fa, “L’invisibile che c’è”, è arrivato a ricevere un riconoscimento prestigioso, al termine della passata stagione teatrale, piena di sold out nei teatri e critiche entusiaste: il Premio Vincenzo Cerami  quale Migliore autore contemporaneo. Ora, per la prima volta nella sua giovane carriera, avrà l’onore e l’onere di interpretare un testo dello stesso Cerami, “L’ipocrita”, in un monologo, nell’importante rassegna teatrale del Todi Festival, dal 28 al 31 agosto. Lo incontriamo mentre è in partenza per la cittadina umbra, davanti a due tazze fumanti di caffè. Solare e tormentato allo stesso tempo, come un cielo azzurro percorso da nuvoloni neri…

Allora Antonio, ci ritroviamo dopo qualche mese, con queste due belle novità: il premio e questa nuova esperienza in un Festival importante come quello di Todi. Partiamo dalla prima. Tu non ci credevi al premio, so quanto sei umile. Il ricordo di quella serata? Immagino che sia stata un’emozione fortissima!

Assolutamente! Soprattutto perché sono stato votato da una giuria di critici sì, ma la giuria popolare era composta da ragazzi, che sono il futuro del teatro, il futuro pubblico. Essere stati votati da loro vuol dire che facciamo cose originali, che piacciono ai giovani ma anche a chi è un po’ più avanti con gli anni, più abituati ad andare a vedere spettacoli teatrali. Poi, consentimi, vincere un premio come miglior autore contemporaneo, intitolato a un grande artista come Vincenzo Cerami, è davvero il massimo! E’ come se a un prete assegnassero, quale miglior prete dell’anno, il premio “Giovanni Paolo II”, capisci? E’ straordinaria ‘sta cosa (ride, ndr).

So che hai conosciuto Vincenzo Cerami, che avevate un progetto da sviluppare insieme per il quale purtroppo non c’è stato tempo. Uno sceneggiatore, poeta e drammaturgo come lui era rimasto colpito da un tuo testo…

Sì, sì, fu un “pour parler”, con Vincenzo. Tramite il mio ufficio stampa Daniela Bendoni, io stavo cercando uno sceneggiatore che mi accompagnasse in questa avventura cinematografica, che purtroppo ancora deve partire. Le chiesi un parere su chi, secondo lei, potevamo contattare per farmi aiutare nella stesura della sceneggiatura tecnica di una mia commedia, che era Giggino Passaguai, non essendo formato in quel campo. Dovevamo trovare uno sceneggiatore bravo che mi affiancasse. Lei fece il nome di Vincenzo Cerami! Vabbuò, dai…non ho chiesto un premio Oscar, va bene anche un altro, dissi io. Figurati uno come lui se mi fa un film… Andammo a parlarci, fu un incontro molto bello, che conservo tra i miei ricordi più cari. Fu anche divertente, nonostante lui fosse già malato. Io gli spiegai il soggetto, lui lesse, poi mi guardò, ci fu un attimo di silenzio e disse: “Lo faccio!” Cosa? “Il film, lo faccio.” Io non ci credevo! Ci fu qualche suo suggerimento, ma poi lui si aggravò e nel luglio del 2013 venne a mancare.

C’è quasi un filo rosso che ti lega a un “poeta” (così lo chiamavano) come lui. L’incontro, poi vinci un premio che ha il suo nome e ora stai per debuttare con un monologo, su un suo testo. Un’esperienza assolutamente nuova per te, credo. Soprattutto nello stile, vero?

Filo rosso…diciamo che non posso nemmeno accostarmi a cento chilometri…, lui doveva essere un Nobel alla letteratura. La sua drammaturgia, in alcuni aspetti, rispecchia molto quello che mi piacerebbe fare un domani: raccontare le cose drammatiche con leggerezza e un pizzico di cattiveria. L’esempio lampante che tutti possono ricordare è il film “Un borghese piccolo piccolo”, dove si evidenza al massimo quel suo tipo di scrittura drammaturgica. Sì, hai ragione, nello stile il monologo che presenterò a Todi è completamente diverso da quello mio solito. Ho letto una sua raccolta di racconti (di Cerami – ndr) che si chiama L’ipocrita, e da questa raccolta ne ho estratti due con cui comporre lo spettacolo. E un mio libero riadattamento della sua opera. C’è molto di Vincenzo ma c’è anche del mio. La famiglia di Cerami mi ha autorizzato a fare tutto questo e ne sono molto contento.

Cosa ti aspetti da questa partecipazione, quali risposte speri di avere?

Guarda, vado al Todi Festival anche per una scelta registica molto ben delineata di Giancarlo Fares, straordinario regista. Lui è specializzato nei monologhi di narrazione. Questo lo è solo a tratti. Ha strutturato questa sua regia in maniera molto onirica, a volte surreale. Il mio stile di recitazione è diverso. Ti dirò… in alcuni momenti, nella sua poetica, nella sua follia, questo monologo potrebbe lontanamente ricordare qualche atmosfera de “L’invisibile che c’è”, ma molto lontanamente. E’ un monologo, quindi da seguire attentamente, e faccio tutto con un telo. Non voglio dire altro, è da vedere, ci sono dei movimenti molto belli, non è statico… chi verrà a vederlo dovrà stare molto attento.

 Le tue commedie hanno avuto sempre regie importanti (Triestino, Pistoia, Bruschetta). Come è il rapporto di un autore, che nel tuo caso è anche attore, con un regista di grande esperienza? Ci si scontra, qualche volta?

 Oh, sì, spesso ci sono degli scontri, soprattutto quando sei anche attore. Io non sono uno di quelli a cui non puoi toccare una battuta, anzi sono il primo a dire che se c’è da tagliare, si taglia. Il mio grande amico Gianni Clementi (uno dei più importanti commediografi europei – ndr), che sotto certi punti di vista è stato anche un maestro, mi ha sempre detto che devo autocensurarmi. Ma lui la fa facile…quando va alle prove e qualcosa non gli sta bene, litiga e se ne va. Io sto sul palco, dovrei litigare tutti i giorni! Lui è uno molto più tranquillo di me, infatti guadagna molto di più (ride, ndr), io che invece mi faccio ‘o fegato amaro, non guadagno quanto lui. Prossimo obiettivo: scrivere una commedia dove io non sono presente, così il fegato si risana!

Antonio Grosso

Ti ammiro molto anche come attore, lo sai. Secondo me hai una grande presenza scenica in teatro. Una volta, una persona del vostro ambiente, mi disse: “Antonio ha una presenza forte perché è una persona vera, ha valori dentro”. Mi colpì molto questa affermazione. Chi è il ragazzo Antonio Grosso?

Bella domanda… Guarda, io separo la mia vita privata da quella artistica. Se riuscissi a gestire la prima come faccio con la seconda, sarei l’uomo perfetto. Ma non è così. Però l’umiltà fa parte del mio carattere, ma non perché voglio fare l’umile a ogni costo. Mi rendo conto che sto realizzando tante cose belle e in Italia è difficile, alla mia età, fare quello che sto facendo con i miei compagni di avventura. C’è un altro gruppo molto giovane che sta scalando il gradimento del pubblico, Vuccirìa Teatro, sono ancora più giovani di noi. Siamo in pochi a essere fortunati, cerchiamo in qualche modo di sgomitare in mezzo a tutti questi coccodrilli e squali che stanno nel nostro ambiente. Il segreto, per me, è non guardare gli altri ma guardare sempre se stessi.

Voglio provocarti. Sul lavoro ti sei circondato di persone evidentemente fidate, con cui ti trovi a tuo agio, sul palco e fuori. Posso dirti che, nonostante questo, spesso ti sento tormentato? Sembra quasi che non credi nelle tue capacità o che resti ferito da comportamenti che non ti aspetti, che non metti in preventivo! E’ così difficile l’ambiente del teatro o sei troppo ingenuo, ancora?

No, direi di no. Lo sono stato fino al 1999. Ora è difficile che cada in tranelli, in determinate situazioni, perché ho imparato bene la lezione. Anche ultimamente ho avuto delle grandi delusioni, ma mi sono ripreso prontamente. Credo in me stesso, credo in quello che faccio. Sono molto deluso dalla maggior parte del mondo teatrale che mi circonda, questo sì. Sai una cosa? Oggi come oggi, il teatro, è come se fosse lo specchio della nazionale italiana di calcio.

Ci sono personaggi che non fanno altro che arricchirsi, mangiare, senza dare la possibilità a forze nuove di esprimersi. I giovani, se ci sono, non vengono valorizzati come dovrebbe essere. Non si crede nei giovani, poche storie! Hai visto le altre nazionali? La tedesca, la spagnola, addirittura quella belga, hanno tutte cura dei propri vivai, credono in quello che hanno in casa. Ma che ci vuole? (si infervora, ndr) Mi rivolgo a voi teatranti, voi direttori di teatri, che ci vuole? Costiamo poco, facciamo dei prodotti belli, possiamo essere nuova linfa per il teatro italiano. Perché non credere in noi? Ci costringono a dire che l’Italia è ancora un Paese per vecchi! Cosa vogliono? L’attore che ha cento anni e ancora va in scena? Ed escludo da questi il grande Albertazzi, una persona che dovrebbe recitare fino a cent’anni veramente! Ne nascessero altri come lui! Parlo piuttosto di tutti quei tromboni teatrali che vanno in teatri prestigiosi. Qui mangiano sempre gli stessi… dobbiamo mangiare tutti quanti! Fateci lavorare! Poi non mi far parlare dei nomi televisivi che non hanno mai calcato un palcoscenico, chiamati solo per attirare pubblico. E’ vergognoso! Adesso è stato ripreso il Teatro Valle… speriamo, ma io ci credo poco, vedrai che andranno sempre gli stessi. Non dico che era meglio l’occupazione, per carità… ma cercate di valorizzare i giovani, mica solo me. Ce ne stanno tanti che si sbattono per trovare uno spiraglio nel teatro italiano. Ma perché? Perché?! Ecco…detto questo, adesso non mi faranno lavorare più!

 

La domanda che non tutti si fanno è quanto sia importante il ruolo della disciplina nel teatro, oltre al talento.

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Una domandona! Ci sono due scuole di pensiero. C’è l’attore impulsivo, che deve essere frenato, che usa il talento. Quello sono io. C’è quello molto tecnico, molto bravo, ma che magari in qualche momento non emoziona. Io sono più per la prima scuola, però la tecnica è importantissima. La voce, il diaframma, i movimenti, le situazioni, parlare a bassa voce, ci sono tanti elementi tecnici che fortunatamente conosco avendoli studiati. Per cui io dico che chi è talentuoso deve studiare, il talento da solo non serve a niente, senza la disciplina. Il talento è quello che ti permette di fare una cosa con estrema facilità quando per gli altri ci vuole tanto tempo. Ti faccio l’esempio del monologo che faccio al Todi Festival… avrei potuto fare una cosa più nelle mie corde, ma il pubblico già mi conosce in quel modo. Fare una cosa nuova ti obbliga allo studio, all’impegno. Sto rischiando, è chiaro, non siamo sicuri che venga fuori una bella cosa. E’ un lavoro di testa continuo.

In quello che, ad oggi, ritengo il tuo lavoro più bello e maturo, L’invisibile che c’è, viene trattato con una leggerezza poetica, con il sorriso, il tema della morte. Stupisce, se si pensa che sei giovane. Da dove nasce questa tua delicatezza nei confronti di un argomento simile?

 Diciamo che è stata una cosa particolare… ho avuto un’esperienza di vita molto brutta, un lutto molto grave che mi ha fatto stare malissimo, ancora oggi ne soffro. Da questa esperienza sono riuscito ad utilizzare il dolore nella vita artistica, trasformandolo in leggerezza. Perché se vai in teatro e racconti la morte di un figlio (La storia dell’invisibile che c’è, ndr) senza alleggerirla con il giusto equilibrio tra sorriso e lacrime, la gente dopo dieci minuti scappa! Di questo spettacolo fu scritto che non c’è né il tempo di ridere, né il tempo di piangere. L’equilibrio perfetto.

Antonio, noi di Cultura&Culture ti ringraziamo per questo bell’incontro e, parafrasando la frase cardine della tua ultima commedia, ti auguriamo “nu ciel’e notte culurat ‘e juorn!”

Ma grazie Paolo, che bello! Grazie a voi di Cultura&Culture! So che questo giornale ha la sua base in Irpinia, quindi mi fa particolare piacere parlare con voi, essendo di origine campane. Ce ne vogliono in Italia di giornali come il vostro, perché date la possibilità a noi che non abbiamo le raccomandazioni delle grandi testate, di metterci in mostra. Ben vengano centomila giornali come Cultura&Culture! Grazie a tutti voi per il lavoro prezioso che svolgete.

Paolo Leone

 

Si ringrazia l’ufficio stampa Daniela Bendoni per la preziosa collaborazione.

 

 

 

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