La recensione di Adieu au langage, nuovo film di Godard

Adieu au langage, l’incredibile storia di una coppia patetica, di un cane che sogna e della morte del cinema. La recensione del nuovo film di Godard.

 

Adieu-Au-Langage

Si può (ri)scrivere la storia del genere umano, del nostro tempo e della settima arte attraverso frammenti di esistenza, voci sparse, nudità sovraesposte, nature morte e vive, fiumi e sangue che scorrono e si confondono? Jean-Luc Godard l’ha fatto nel film “Adieu au langage”, ponendo come soggetto di una trama sconnessa una coppia patetica che battibecca sulla vita e un cane che s’immerge nella sua coscienza pensante. Il più radicale tra i rifondatori del cinema ha dato così il suo personale “Adieu au langage”. Addio per sempre al linguaggio narrativo, al montaggio classico, all’immagine densa di significato, al verbo che non si incarna più perché rimane fiato senza senso, alle gerarchie tra i diversi personaggi e persino a Dio. Estremo saluto ai numi tutelari vecchi e nuovi. Si riparte dal grado zero della società mediale attraverso la fruizione ultramoderna del 3d. Godard mette in crisi il rapporto tra immagini e realtà raccontando a modo suo il tutto e il niente, il vuoto e il pieno, la Storia e la sua negazione, la vita e la morte. La sua indagine prende corpo attraverso la nudità fisica e morale di Josette, donna sposata che ama un celibe arrogante. I due iniziano a parlare, a speculare e ad arrivare persino alle mani, mentre un cane, prima di giungere nella loro casa, vagabondeggia al volgere delle stagioni tra un borgo semivuoto e la campagna circostante, tra boschi e distese d’acqua. Nel mezzo di un plot che non c’è subentrano un gentleman britannico, libri e figure storiche del grande schermo riprese in televisione, filmati in bianco e nero, Keats, Shelley, il mito di Frankenstein, Hitler e la filosofia nichilista. Tutto finisce con l’ululato di un cane che si confonde col pianto di un bambino. Annientando la linearità narrativa come già aveva fatto da pioniere in “Fino all’ultimo respiro” (1960), Godard in copia e incolla ritagli di vita in un’inusuale radiografia del presente attraversata da libere suggestioni e irrazionali associazioni di pensiero. Nel film che è valso al cineasta il Premio della Giuria a Cannes (ex-aequo con Xavier Dolan), non esiste trama portante e nemmeno i più ovvi raccordi narrativi tra figure che, anziché armonizzarsi tra loro, si rincorrono e si dividono in un fluire rapsodico. Non per nulla il tema portante di fotogrammi confusi che si accavallano sghembi, obliqui e rapidi è la liquidità (di fiumi, sangue o deiezioni corporali). Secondo un’alchimia poetica che mescola, confondendoli, suoni e colori, il regista sfrutta l’immersività del 3d che annienta la distanza tra finzione e realtà, ma intacca inesorabilmente il processo di immedesimazione, producendo uno straniamento in tre dimensioni. La vicenda è il pretesto, inteso etimologicamente come “finzione di un motivo”, di cui il narratore si serve per arrogarsi il diritto di giudicare l’insensatezza umana nella contemporaneità alienante, il cortocircuito fra stato di natura e tecnologia, tra il passato che diventa racconto condiviso e il presente che fatica a divenire futuro. Ma se di speculazione si tratta è da intendere in accezione filosofica, come un’ “esplorazione” ardita e senza confini per dimostrare il fallimento di ogni umano artificio e soprattutto la crisi di una civiltà babelica in cui ognuno parla e sente con differenti segni linguistici. “Adieu au langage” dunque, ma anche “adieu au cinéma”, dispositivo che risorge come forma linguistica interrotta in un esperimento visivo perturbante. Solo Godard poteva osare tanto.

Trailer: http://youtu.be/FtLr5rEi1VA

 

                                                                                                                             Vincenzo Palermo

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